«Non ci sarebbe peggior disastro per il tuo popolo», osserva il dottor Liet-Kynes, ricordando le parole di suo padre, in un drammatico passaggio di Dune, «che quello di cadere nelle mani di un Eroe». Mentre giace morente nella sabbia del deserto che ricopre il pianeta Arrakis, il Planetologo imperiale e Arbitro del Cambio, uno dei personaggi più complessi e controversi del romanzo del 1965, sottolinea per molti versi l’aspetto maggiormente frainteso – in favore del tema ambientale ed ecologico – dell’intero ciclo fantascientifico ideato da Frank Herbert. Lo scrittore statunitense, infatti, intende mettere in guardia i suoi lettori dal pericoloso fascino dell’eroe messianico.
Politica e religione
Il recente adattamento cinematografico di Denis Villeneuve rappresenta forse l’occasione per tornare brevemente a riflettere sulla politica «di» e «in» Dune. Perché la politica – ma soprattutto il rapporto fra politica e religione – è centrale in questo capolavoro della letteratura fantascientifica, vincitore del Premio Nebula e del Premio Hugo.
Il romanzo di Herbert, in un futuro neo-medievale e intriso di continui rimandi alla cultura islamica, racconta la lotta per il potere tra i valorosi Atreides e i brutali Harkonnen, sullo sfondo delle machiavelliche macchinazioni politiche dell’imperatore Shaddam IV della casa Corrino. Ma non mancano nemmeno di essere narrati gli interessi mercantilistici della Gilda spaziale, le oscure finalità eugenetiche dell’ordine femminile del Bene Gesserit in cerca del «Kwisatz Haderach», e soprattutto la forza rivoluzionaria del popolo dei Fremen.
Dopo l’ambizioso ma incompiuto tentativo di Alejandro Jodorowsky, e il deludente kolossal di David Lynch, la pellicola del regista canadese – di cui attendiamo con curiosità il secondo e decisivo capitolo, appena annunciato dalla casa di produzione – segue con pazienza l’iniziale ascesa del giovane Paul Atreides (interpretato da un ottimo Timothée Chalamet) nelle vesti di capo politico-militare.
Il falso messia
Il film di Villeneuve, che sotto il profilo visivo e sonoro è davvero notevole, non può certamente competere con l’opera di Herbert nel tentativo di descrivere il «destino» messianico di Paul Muad’dib (nome con cui il rampollo della casa Atreides, in cerca di vendetta, viene venerato fra le tribù dei Fremen). Eppure, in alcuni brevi fotogrammi, che mettono in scena gli «incubi» che perseguitano il ragazzo, in cui eserciti di fanatici inneggiano il suo nome e fanno divampare la fiamma della jihad in tutto l’universo, anche in Villeneuve si possono scorgere – e speriamo di non rimanere delusi dal sequel – proprio quelle preoccupazioni nei confronti di “finti messia” o di “superuomini” che intendeva trasmettere Herbert.
La storia di Paul Atreides (Muad’dib) non è semplicemente una tragedia greca su scale individuale e familiare, bensì il tentativo di mettere in guardia intere società dall’affidare troppo potere a un leader militare e carismatico, a un eroe apparente che può condurre attraverso la sua tracotanza anche le comunità politiche alla rovina e il mondo intero alla distruzione.
«I leader carismatici», osserva infatti Herbert in un’intervista televisiva, «amplificano gli errori», e le «strutture di potere» costituite dai loro seguaci «tendono a essere prese in consegna da persone che sono corruttibili», perché non è soltanto il «potere assoluto» a corrompere l’essere umano, ma è il «potere» in se stesso «ad attrarre coloro che si lasciano corrompere».
Ispirazione originaria
Come ogni romanzo di fantascienza, anche Dune rappresenta una critica alla realtà esistente, un lucido richiamo a porre attenzione al fatto che una felice utopia non si trasformi ben presto in una violenta distopia. Non è infatti un caso che, dopo suo il magnum opus, Herbert pubblichi altri due romanzi, Messia di Dune (1969) e I figli di Dune (1977), in cui continua il racconto delle vicende di Paul Atreides (Muad’dib), ma in cui ne registra soprattutto i risultati fallimentari. Proprio in tale fallimento è possibile cogliere un motivo distintivo che appare in tutta la narrativa dello scrittore statunitense: vale a dire, la figura del “falso” messia.
Ecco perché, richiamando l’ispirazione originaria di Dune, Herbert osserva come l’opera del 1965 «iniziò con un’idea», ossia «fare un lungo romanzo sulle convulsioni messianiche che periodicamente si abbattono sulle società umane». «Avevo questa teoria», egli infatti prosegue, «che i supereroi erano disastrosi per gli esseri umani, che, anche se si postulava un eroe infallibile, le cose che questo eroe metteva in moto cadevano alla fine nelle mani di mortali fallibili». E, pertanto, conclude Herbert, «quale modo migliore per distruggere una civiltà, una società o una razza se non quello di far entrare le persone nelle oscillazioni selvagge che seguono l’affidare il loro giudizio e le loro facoltà decisionali a un supereroe?».
Luca G. Castellin è professore associato di Storia delle dottrine politiche. Insegna presso la Facoltà di Scienze politiche e sociali dell’Università Cattolica del Sacro Cuore. Il suo contributo è stato pubblicato su VPlus del 6 novembre 2021.
«Un Anello per domarli, un Anello per trovarli, un Anello per ghermirli e nel buio incatenarli.» Anche Tolkien riflette sul problema del potere in maniera non tanto dissimile: la sua fascinazione sui “corruttibili”, l’impossibilità di portarne il peso per una sola persona, il gravissimo pericolo costituito da un potere supremo tale da sussumere in se tutti gli altri.