Dalla medaglia miracolosa alle infinite serie della Madonna di Lourdes, dal sacro Cuore alle statue di padre Pio, dalle immagini dell’angelo custode a quelle dei papi santi: un aggregato di segni guardato con noncuranza dagli esperti d’arte e talora anche dai pastori. Un’accozzaglia di manufatti che, al di là del minimale rispetto al sacro, sembrano consegnati allo stoccaggio di magazzini d’altri tempi.
Ma, nonostante tutto l’impegno iconoclastico, essi riemergono e occupano stabilmente le mensole devote delle case, gli anfratti delle chiese come l’immaginario pubblico.
Qual è il segreto della loro continuità? Che cosa chiedono alla fede della Chiesa? In che modo si collocano dentro la vicenda storica delle immagini e dell’arte?
A queste domande si è applicato Giuliano Zanchi nel volume Icone dell’esilio. Immagini vive nell’epoca dell’arte e della ragione (Vita e Pensiero, Milano 2022). Semplificando la sua tesi, si può dire: esse tentano di custodire la potenza sacramentale delle icone del primo millennio cristiano e, nella loro totale inattualità artistica, mantengono viva la dimensione affettiva della fede.
Decodificare il loro segnale vuol dire arrivare alla domanda contemplativa del credente e riconoscere alla pietà popolare un’intenzionalità teologica. Strumenti fragili, segnati dal passatismo, resistenti all’evoluzione del dogma, estranei alla qualità del gesto artistico, manipolabili dal tradizionalismo politico eppure segnali importanti per non disperdere la domanda di vita spirituale propria della pietà popolare.
Sacramento e immagine
Nel processo storico complessivo del rapporto fra arte e fede Zanchi distingue tre grandi stagioni.
La prima è quella delle icone che occupa il primo millennio. Esse sono parte dell’impianto liturgico, molto prossime alla santità del sacramento, capaci di trasmettere l’esperienza di una presenza. Un tale approccio è ancora perseguito dalla tradizione ortodossa.
La seconda stagione è quella dell’umanesimo che arriva fino alla modernità. Le immagini sono finestre sul mondo, su questo mondo non su quello di Dio. La loro forza è sempre più legata alla qualità tecnica e all’abilità dell’artista. Da icone diventano opere d’arte. Il sacramento, in particolare l’eucaristia, garantisce la presenza reale del divino mentre l’immagine è un ornamento secondario.
Nel contesto attuale il potere dell’immagine è migrato fuori dell’arte, nello spettacolo, nella moda, nella cosmetica, nell’estetismo che permea ogni prodotto commerciale. La multimedalità digitale ha fatto esplodere la distanza fra immagine e vissuto cristiano, anche se le domande spirituali trovano ampio spazio nell’arte contemporanea.
La questione dell’estetica devota si afferma nelle ultime due stagioni e rappresenta il tentativo «della vecchia funzione iconica di mantenere un diritto di cittadinanza anche nell’epoca della nuova immagine artistica e rappresentativa» (p. 15).
Dell’ampia trattazione accenno solo a tre esempi paradigmatici: l’immagine del sacro Cuore, la madonna di Fatima e la “fotografia” di Gesù della sindone.
Sacro Cuore
Il riferimento al cuore di Cristo affonda le sue radici nei primi secoli del secondo millennio, ma diventa la devozione popolare più diffusa (accanto a quella mariana) a partire dalla fine del ’600 fino a metà del ’900, grazie alle apparizioni a suor Margherita Maria Alacoque (fra il 1672 e il 1678).
Da lì prese progressivamente figura il sacro Cuore fino all’immagine considerata definitiva di Pompeo Batoni: Gesù a mezzo busto che tiene nella sinistra il cuore sormontato da una croce e ravvivato da una fiamma.
Fortemente contestata da alcuni vescovi e teologi, la devozione si è imposta per l’efficacia dei suoi promotori, ma soprattutto perché interpretava la rinnovata centralità del Cristo, della sua umanità e della chiamata al credente per una partecipazione affettiva alla sua passione.
Presente nelle corti (Portogallo e Parigi), sulle bandiere dei vandeani contrari alla rivoluzione ed emblema di sostegno alle prime democrazie cristiane (Equador), l’immagine del sacro Cuore veicolava tensioni molto radicate nel popolo cristiano: l’opposizione all’ideologia razionalistica, la resistenza anti-protestante e quella anti-moderna.
Essa riprende la pretesa simbolica un tempo affidata all’icona e alle reliquie. «Mentre l’istituzione ecclesiastica combatte sul fronte della contesa giuridica e la teologia di professione, braccata dagli emergenti saperi critici, circoscrive lo spazio epistemologico, sempre più stretto, della sua immunità, gli ambienti devoti, in sodalizio crescente con quelli popolari, moltiplicano la creazione di “bolle”… in cui consentire una certa sopravvivenza del vecchio ordine da difendere» (p. 133).
Alla ragione anaffettiva della scienza e della teologia che ne segue i criteri, la devozione contrappone la mistica come modello di conoscenza e di verità.
Fatima e sindone
Fatima (1917), dopo La Salette (1846) e Lourdes (1858), rappresenta un’icona dei tempi moderni, un invito all’intensificazione della fede accompagnato da un giudizio severo sul corso della storia.
Da apparizione privata scivola a messaggio pubblico in relazione alla rivoluzione bolscevica del 1917 e alla guerra mondiale, allora in atto.
Il manufatto tridimensionale (la statua) è opera di J. Ferreira Thedim di cui nessuno ricorda il nome perché il “prodotto” è stato moltiplicato con un numero sterminato di materiali e di varianti è si è imposto come immagine senza tempo.
Quando Secondo Pia, nel 1898, fotografava il sacro lenzuolo della sindone vedeva emergere un’immagine di figura e di volto rimasta latente per secoli. L’immagine veicolata dal sudario diventava leggibile grazie ai poteri della tecnica fotografica.
Al di là delle infinite e irrisolte questioni storiografiche, quell’immagine riproduceva l’incanto di una presenza e consentiva di avvicinarla alla forza del sacramento. Riaffiora ancora una volta la memoria dell’icona.
Leggere sul retro
Queste e altre immagini, che sembrano appartenere alla preistoria del mondo visivo attuale, custodiscono una funzione simbolica e permettono un transito di forze legate a una presenza che agisce. Mentre il sacramento si contrae nel segno e si stilizza nella forma, le immagini alimentano la «corposità della memoria, la potenza della rappresentazione, il rapimento dello sguardo in adorazione» (P. Sequeri, p. 126). Esse diventano “attive” e pretendono uno spazio anche nel moderno.
«La nutrita teoria di immagini devote che compaiono lungo questi secoli rappresenta il momento energetico e visivo di episodi di attivismo religioso suscitati come reazione al costituirsi di un ordine sociale che sembra togliere sempre più ossigeno alla possibilità di dare forma pubblica e condivisa al bisogno di credere. Sono quindi sempre, in modo più o meno accentuato, “icone dell’esilio”, sacramenti visivi di un cattolicesimo in progressiva ritirata dal mondo nuovo che si sta costituendo su valori di autonomia epistemologica e politica» (p. 129).
Nel retro delle immagini devote si possono leggere i traumi sociali della modernità, l’emergere di una domanda di fede capace di affetti e la difesa di una coscienza che sia in grado di strutturarsi a fronte dell’incondizionato piuttosto che all’estetismo del mercato.