Uno stabilimento balneare tutto nero, in quel di Chioggia. Nero, cioè fascista. Iscrizioni, parole d’ordine, icone d’epoca, ritratti del Duce. E poi saluti “romani”, con braccio teso e mano protesa; e ancora il sigillo storico – «me ne frego» – apposto dal titolare-bagnino-gerarca, ad ogni conato di rimostranza.
Giustamente si sono levate grida di protesta e si sono reclamati provvedimenti. Si è infine coinvolto il parlamento, perché producesse nuove leggi di divieto. E sono insorte diverse forze politiche a denunciare il carattere “liberticida” di un simile intervento.
L’impressione è che ci si sia sforzati di ignorare che la Costituzione della Repubblica, quella che a gran voce proclama la libertà di parola per tutti, stabilisce in materia un’unica eccezione esplicita nel senso del divieto di ricostituzione e di propaganda del fascismo.
Sul seguito di espressioni assai poco in linea col galateo istituzionale, rese ancor più politicamente scorrette dalle esigenze della comunicazione elettronica, conviene stendere non il solito pietoso velo ma una coltre di sdegnata deplorazione.
Il sintomo e la malattia
Dopo di che, non resta che affrontare il vero tema sotteso ai fatti e alle forme assunte nella contingenza. Per chiedersi quale sia lo stato dell’arte nella formazione di una coscienza democratica in Italia secondo la lettera e lo spirito delle Costituzione. Guardando però non agli episodi ma alle grandi sintesi offerte dal processo storico-politico.
L’opinione di chi scrive è che solo in questa prospettiva si riesce a configurare adeguatamente il rapporto tra il sintomo e la malattia e tra la malattia e l’epidemia. Un’operazione di questo genere impone di verificare se e quanto nella società abbiano funzionato e siano presenti quegli anticorpi che, per usare il linguaggio degli immunologi, determinano l’“immunità di gregge”, quando la somministrazione dei vaccini raggiunge la quasi totalità della popolazione.
Se non è arbitraria la trasposizione dei concetti dalla medicina alla politica, pare legittimo chiedersi se e quanto si sia operato in modo coerente, nell’esperienza repubblicana, per evitare che il fascismo, una volta sconfitto, potesse riprodursi in dimensioni tali da costituire motivo di preoccupazione e allarme per la democrazia.
L’amnistia di Togliatti
Contrariamente a quello che si pensa, la politica italiana, dal 1945 in poi, si è occupata con intensità del problema del fascismo; non altrettanto può invece affermarsi a proposito della cultura. Come dire: abbondanza di cortisone per ridurre i focolai di infiammazione e scarsa e poco diffusa somministrazione di vaccini per un’appropriata profilassi…
Il primo impegnativo momento di verifica fu quando si dovette stabilire l’atteggiamento del nuovo regime libero verso i superstiti di quello tirannico appena abbattuto. Ma non si ebbero dubbi, allora, sul fatto che la democrazia non poteva contraddire se stessa scostando le proprie scelte dai principi di libertà; e dunque si convenne sull’utilità e sull’opportunità di un’amnistia in favore di quanti non avessero commesso delitti rilevanti, in modo da poterli inserire senza discriminazioni nel tessuto dell’esperienza democratica.
Furono in pochi, in effetti, a manifestare apprensione per le conseguenze di tali misure di clemenza proposte dal guardasigilli, il comunista Palmiro Togliatti. E, dopotutto, c’era un interesse comune dei partiti al potere: conquistare una quota di quei voti e impedire che si formassero coaguli di nostalgia in misura intollerabile.
Una parte della critica postuma ha rilevato, in verità, che in tal modo si realizzò il trasferimento complessivo – persone ma anche cultura e abitudini – di un ceto dirigente che aveva dato consenso al fascismo, nel nuovo perimetro della politica e delle istituzioni, soprattutto nella cerchia dell’amministrazione, della giustizia e del ceto militare.
Tra Moro e Gedda
Un’operazione altrettanto visibile e influente non si registrò sul versante delle nuove generazioni, quelle che pure erano state indottrinate dall’ultimo ciclo del fascismo. Si pensò che la democrazia sarebbe stata scuola a se stessa; e, in effetti, la scoperta di un mondo che fosse diverso dal “credere, obbedire, combattere” ebbe effetti profondi e duraturi per molti di quei neofiti della democrazia.
Non ci fu, invece, un impegno sistematico di acculturazione democratica che partisse dalla scuola, nel senso di una vera e assidua pedagogia della libertà.
Solo con l’iniziativa di Aldo Moro, negli anni ’50, si immaginò di dar vita ad un insegnamento sistematico di “educazione civica”, che però non ebbe significativi sviluppi essendogli impedita una configurazione autonoma tra le materie curriculari.
Né il mondo associativo mise in mostra iniziative estese e convincenti in materia. Le stesse Acli che ho conosciuto e seguito dai primi anni ’50 non espongono al riguardo una produzione significativa. Da registrare, invece, un’accurata pubblicazione dei Comitati Civici di Luigi Gedda che illustra puntualmente la Costituzione repubblicana in stretta simmetria con i Patti Lateranensi del 1929…
Le leggi e la cultura
Quanto alla storia, il fascismo appariva un caso troppo recente perché si riuscisse a includerlo nello svolgimento effettivo dei programmi. Solo molto più tardi, con il ministro Luigi Berlinguer, si tentò di colmare il vuoto introducendo lo studio del “Novecento”, ma anche qui con risultati poco esaltanti.
Vennero, è vero, la legge Scelba (1952) e la legge Mancino (1993); la prima, volta ad ostacolare le tendenze di rinascita fascista, che poi si materializzarono nella pratica “democratica” del Msi di Almirante e soprattutto di Michelini; la seconda, orientata a prevenire gli smottamenti di segno razzistico e neonazista che serpeggiavano nel sottosuolo della politica. Strumenti, entrambi, tanto ben orientati quanto poco utilizzati.
Non si può in ogni caso dimenticare che, sul finire degli anni ’50, la presenza parlamentare dei gruppi neofascista e monarchico funzionò in più di un’occasione da sponda ai governi a guida democristiana, fino all’esplosione del caso Tambroni, quando l’apporto missino risultò determinante e anche… invasivo.
Fu allora che il segretario della Dc Aldo Moro coniò per il suo partito la definizione di «democratico, popolare, antifascista», che segnava una linea di sbarramento verso il proseguimento della cooperazione con la destra e, soprattutto, apriva la strada al processo che avrebbe condotto alla nascita del centro-sinistra con il Psi e, più avanti, alle prospettive della solidarietà nazionale.
Vaccinazione mancata
Non è questa la sede per sottolineare l’importanza decisiva delle scelta di Moro ai fini dell’estensione della partecipazione democratica nel riconoscimento della pari dignità di tutti i partiti che realizzavano, convergendo unitariamente sui valori della Costituzione, quello che lo stesso Moro chiamava il “compimento” della democrazia.
Non v’è dubbio, però, che il lungo protrarsi di una fase di cooperazione basata sui voti della destra (per quanto «non richiesti e non graditi», come si diceva) abbia indebolito la… vigilanza democratica in quella direzione e quindi la promozione di un’adeguata campagna di… vaccinazione nel senso prima esplicato.
La riprova sta nel fatto che in tutte le sedi e ad ogni livello circolano sul fascismo, sulle sue cause, i sui suoi effetti idee e concetti che vanno dalla banalizzazione (i treni in orario) alla retorica nazionalista (quando ci facevamo rispettare), fino all’esaltazione delle scelte dell’ultima versione del fascismo, quella della disperazione della Repubblica Sociale.
Solo alcuni autori hanno cercato di mettere a fuoco la complessità del fenomeno fascista (e simili) come dato endemico delle convivenze civili che si manifesta con allarmante vigore nelle situazioni di crisi e in presenza del diffondersi di allarmi e di paure negli strati intermedi della popolazione.
Altrettanto si può dire per l’analisi dell’altro fenomeno che fece seguito alla presa del potere dei regimi totalitari (Mussolini e, dopo di lui, Hitler in Germania) e cioè il consenso popolare che si manifestò attorno ad essi e ne costituì il durevole sostegno.
Domande senza risposta
Sospendo qui l’analisi e cerco di concludere con un richiamo all’esperienza. Soprattutto andando a parlare nelle scuole, mi sono accorto che l’attenzione dei ragazzi cresce quando cominci ad illustrare le differenze tra il prima e il dopo, cioè tra la prassi fascista e l’orientamento democratico. Quando spieghi, ad esempio, che quelli che oggi sono riconosciuti come diritti erano considerati come delitti: e sottolinei che il criterio interpretativo era quello dell’«Uno che ha sempre ragione», o quando sorprendi (e spaventi) l’uditorio recitando a memoria il giuramento del “balilla”, imparato a cinque anni, quello che «in nome di Dio e dell’Italia» impegnava ad «eseguire gli ordini del Duce» e a «servire con tutte le mie forze e se necessario col mio sangue» la «causa della rivoluzione fascista».
Così sono giunto alla conclusione di ritenere indispensabile che i giovani seguano un ciclo di lezioni sul fascismo per colmare una lacuna di cognizioni e di cultura sulla quale si reggono anche tanti degli equivoci sui quali oggi si discetta a vuoto. Sono sicuro che studiare seriamente il fascismo, scoprirne il carattere endemico e le conseguenze perniciose (il culto della violenza, per esempio) sul carattere delle persone oltre che sull’organizzazione sociale, farebbe bene a tutti. Compresi i “fascisti da spiaggia” e i loro emulatori in parlamento.