I vescovi italiani, almeno nel senso della conferenza episcopale, si stanno barcamenando fra due fronti. L’attenzione al culto, con la pubblicazione di un nuovo messale, decisamente problematica dal punto di vista biblico e teologico, come ha ben mostrato Luca Mazzinghi da queste pagine (cf. SettimanaNews, qui), l’ansia di dire ai fedeli come scambiare il segno della pace e ai presbiteri come imporre le ceneri o che valore dare alla terza forma della celebrazione della riconciliazione e, d’altro lato, l’indiscutibile attenzione alle nuove povertà, nel mettere in atto iniziative di autentica e profonda solidarietà.
Fra questi due poli si può facilmente intravedere una dimenticanza, quanto consapevole non saprei dire, circa la necessità di sanare la frattura culturale fra le istanze più radicate del Paese, che sarebbe certo molto bello ritenere “non ancora” cristiano (cf. SettimanaNews, qui), ma che, ahimè, già da tempo, non lo è più.
Le realtà ecclesiali si trovano in un momento di difficoltà proprio perché sono chiamate anch’esse a oscillare fra culti e carità temporale (= solidarietà), mentre sono state costrette a inventare nuove opportunità di comunicazione della fede, attivando modalità inedite e per certi aspetti feconde, quali lo zoomworship.
La sfida – come ha detto papa Francesco ai catechisti italiani – sta nella riscoperta del Kerygma. Ma si tratta di una situazione antica quanto il Cristianesimo stesso. La necessità della “nuova evangelizzazione” veniva già intravista dall’apostolo Paolo nella sua I lettera ai Corinzi, quando, di fronte alla crisi di fede e di speranza che attraversava la comunità, sentiva il bisogno di rievangelizzarla, offrendo anche a noi la più antica attestazione scritta dell’evento della resurrezione (1Cor 15,1-11). Quello che Paolo ha fatto per i Corinzi deve ora riproporlo la Chiesa, che è in Italia, agli italiani.
Accanto a questo modello keygmatico-kairologico, oggi dominante in movimenti ecclesiali di diversa appartenenza (cui fanno l’occhiolino non pochi teologi), nonché nell’invadenza delle forme fondamentaliste-evangelicali, straripanti in diverse regioni del globo, il Nuovo Testamento non disdegna, anzi promuove e raccomanda un modello di “mediazione culturale”: quello proposto nel discorso di Paolo all’Areopago di Atene, in Atti, 17, dove si fa ricorso alla cultura diffusa, soprattutto stoica, per predisporre all’annuncio, che comunque dai più verrà rifiutato, ma da alcuni accolto. E fra questi “alcuni” il tale Dionigi, membro dell’Areopago, cui la cristianità medievale attribuirà il famoso corpus, tra cui spicca il trattato sui nomi di Dio.
Non possiamo non avvertire, nell’oggi della Chiesa italiana, un deficit di cultura e di teologia e non possiamo non rilevare gli esiti catastrofici, per la fede stessa, di tale assenza. Diventerebbe allora urgente elaborare un progetto ecclesiale, che metta al centro la persona, fra natura e cultura, in modo da ri-esprimere e ri-proporre, non solo alle comunità credenti, ma al Paese, l’insopprimibile identità del messaggio cristiano con tutta la sua dinamica formativa e culturale, sociale ed ecclesiale.
Il persistente appello di papa Francesco ad attivare dei processi, piuttosto che ad occupare degli spazi, dato che il tempo supera lo spazio, da parte di molti oggi viene assunto come uno slogan, mentre al contrario, deve trovare attuazione nella forma di un progetto ecclesiale e culturale condiviso, quindi “sinodale”, in cui si chiamino a raccolta le migliori menti presenti nel nostro contesto.
Quello che era stato denominato, a suo tempo, “progetto culturale di ispirazione cristiana” della Chiesa italiana, non è naufragato solo perché si è rinnovata la leadership di vescovi e responsabili degli uffici, ma per due motivazioni di fondo, che non dovranno riproporsi, onde non incorrere negli errori del passato. In primo luogo, l’ispirazione di fondo di tale progetto sembrava più orientata all’occupazione di spazi, politici, mediatici e sociali, che non all’attivazione di processi.
E questa neo-temporalismo non poteva non fallire, perché si trattava in ultima analisi di riproporre un ideale di cristianità, morto e sepolto, grazie alla modernità e ai suoi esiti. In secondo luogo, si trattava di una proposta rivolta alla cosiddetta cultura accademica, piuttosto che alla cultura diffusa e le modalità elitarie del suo rappresentarsi non potevano che ulteriormente approfondire proprio quella frattura tra fede e cultura che si voleva ricomporre, con le migliori intenzioni.
La “sinodalità” che il papa invoca, richiamando il convegno di Firenze (cf. qui), dovrà innanzitutto evitare il rischio della convegnite, malattia acuta dell’epoca ecclesiastica precedente, ma rivitalizzare la valenza culturale del kerygma, coinvolgendo energie, risorse e persone non solo disponibili, ma soprattutto competenti e appassionate ad un cammino di nuova evangelizzazione che, magari adottando il “dialetto” (ricordo a questo riguardo il ricorso cristologico al patois de Canaan), facciano in modo che l’appello di papa Francesco non venga, come spesso accade, insabbiato.
Cari Lorizio e Autiero, grazie di queste riflessioni concise, chiare, importanti. Ne ricavo alcune suggestioni per vivere con speranza l’appartenenza e l’avventura ecclesiale in questo tempo in cui siamo tutti davanti alla necessità (per darci un futuro non distopico) di ripensare le cifre fondamentali della nostra esistenza nel pianeta. Ne condivido una.
I luoghi sociali e teologici della mediazione culturale (della chiesa italiana e in generale di quelle occidentali), cioè per incarnare il Vangelo, non possono che essere i poveri e le strutture che generano miseria, marginalità ed esclusione. I “posizionamenti” su specifiche questioni dottrinali, morali e disciplinari a prescindere dalle “attese della povera gente” rischiano fatalmente di chiuderci in noi stessi: in dibattiti ecclesiali che, nonostante ancora una certa attenzione mediatica, non hanno alcuna speranza di incidere culturalmente in una società che non è più cristiana e non ha intenzione di tornare ad esserlo (se non in pericolose strategie ideologico-identitarie senza Vangelo). L’inizio del cammino sinodale della chiesa italiana non più (sperabilmente) “irrigimentata” da e su logiche di potere) non potrà che coincidere con un serio e profondo apprendistato all’ascolto nonviolento (umile, disinteressato, evangelicamente beato) in tutti i luoghi di marginalità e di non potere. C’è, in tutte le chiese locali italiane, chi questo apprendistato lo ha già fatto, in genere senza rumore e riflettori . Si tratta quindi di ricominciare da lì!
Senza questa particolare, evangelica e teologale mediazione culturale, il solo modello kerigmatico rischia di generare linguaggi chiusi o favorire atteggiamenti fondamentalisti. Certamente non racconta il Verbo che si fa carne.
Caro Giuseppe,
tu scrivi un bel pezzo sull’importanza della cultura, tra culto e carità. In particolare è importante quello che dici, indicando i due motivi del naufragio del vecchio approccio dell’allora “progetto culturale”, affinché non si ricada nelle stesse strettoie. Quel progetto era essenzialmente “restaurativo” di un presunto ordine ideale e poi, come tu ben dici, era rintanato negli spazi dell’accademia.
Ma direi di più: c’è qualcosa che lega le tue due indicazioni di analisi. Questo ha a che fare con il tentativo di quel progetto (ma lo stesso potrebbe ripetersi anche oggi) di isolarsi dalla vita, dimenticando che “cultura” ha a che fare con coltivazione di spazi vitali in movimento; accompagnamento dei processi di elaborazione che tali spazi vitali vanno facendo per assurgere a consapevolezza e coscienza di sempre maggiore umanità.
In fondo quel progetto incasellava la cultura nell’angustia museale del passato o negli spazi asettici dell’accademia. In definitiva, sfuggiva dal compito di leggere la realtà in divenire, rifiutava la fatica del riconoscimento di quel travaglio che porta le persone e le comunità a maggiore consapevolezza di diritti e di responsabilità. Cioè, in altre parole, aveva paura della vita o tendeva solo ad addomesticarne l’andamento. E così, invece di coltivarla, la inaridiva. Tradendola.
Grazie per le tue riflessioni e cari saluti. Antonio Autiero