PAROLE IN VIAGGIO/6
L’emergenza Coronavirus ha costretto a rinviare diversi appuntamenti di «Parole in viaggio», l’iniziativa organizzata in nove città italiane per celebrare il bicentenario di Marietti 1820. Tuttavia, grazie alla collaborazione con l’Ansa, le sintesi delle lezioni vengono pubblicate sul sito dell’agenzia di stampa e le interviste agli autori proseguono in radio, con la rubrica «Il posto delle parole», condotta da Livio Partiti. L’iniziativa si avvale della collaborazione di Bper banca, Emme promozione, Edimill e Tuna bites. Ogni sette giorni Settimananews propone le sintesi delle lezioni e le interviste radiofoniche. Proseguiamo con la parola Futuro, affidata a Franco Ferrarotti, primo professore italiano di Sociologia all’Università di Roma La Sapienza, diplomatico e deputato indipendente al Parlamento italiano dal 1958 al 1963, docente a Chicago, Boston, New York, Toronto, Mosca, Varsavia, Colonia, Tokyo e Gerusalemme. Nei sei volumi delle sue Opere, pubblicati da Marietti 1820, Ferrarotti raccoglie in oltre cinquemila pagine le riflessioni teoriche, le ricerche sul campo sulle periferie, le mafie e il terrorismo e gli scritti autobiografici, dal racconto dei viaggi negli Stati Uniti e in Amazzonia al ricordo degli amici e maestri Cesare Pavese, Nicola Abbagnano, Felice Balbo e Adriano Olivetti.
Nessun dubbio che il tema del futuro, vale a dire la possibilità di prevedere ciò che accadrà domani e dopodomani, eserciti su tutti una straordinaria attrattiva e costituisca un problema dominante da tempo immemorabile, dagli oracoli dell’antichità classica alle previsioni odierne circa l’andamento del ciclo economico.
Ma l’esito delle previsioni, malgrado gli indubbi progressi del calcolo delle probabilità, permane altamente incerto, un’incertezza che l’oracolo di Delfi, come gli aruspici latini, attenti osservatori delle interiora animali, e gli specialisti odierni della futurologia sono astuti e lesti a nascondere in un linguaggio talvolta alquanto equivoco. C’è un esempio classico: ibis redibis non morieris in bello («andrai, tornerai /non/ morirai in battaglia»).
Ciò che con relativa sicurezza sembra legittimo affermare è che non si dà possibilità di progettare il futuro senza aver recuperato il passato. Non voglio dire che il passato non passa mai. Molto più semplicemente, sembra chiaro che, senza aver compreso a fondo il passato, è difficile capire il presente ed è impossibile progettare razionalmente il futuro. In altre parole, forse eccessivamente poetiche per non tradire un certo pathos: il futuro ha un cuore antico. Non solo. A guardare a fondo nella questione, il futuro è già da sempre cominciato.
Ciò è vero soprattutto oggi, quando l’innovazione tecnica è universalmente salutata e adottata come principio-guida dello sviluppo delle società umane. Sorge il dubbio se si tratti di sviluppo ragionato, o quanto meno ragionevole, o se invece ci si arrenda, inesorabilmente, al fare per fare che approda, inevitabilmente, al caos.
Nessun dubbio che la tecnica abbia avuto e ancora abbia effetti positivi. Nessun tipo di neo-luddismo è oggi ammissibile. Dall’acqua calda alle fognature urbane e ai progressi nella medicina i positivi risultati della tecnica, come scienza applicata, sono innegabili. Ma la tecnica è una perfezione priva di scopo. È in grado di accertare e controllare la correttezza funzionale delle proprie operazioni interne, ma non può dirci né dove siamo , né dove andiamo.
La contraddizione mortale che oggi pesa sull’umanità è data da un progresso tecnico a portata planetaria di estrema rapidità e da un mondo governato da gruppi dirigenti che, quasi per istintiva reazione difensiva, idealizzano il proprio orticello; si rinchiudono in Stati-nazione che hanno fatto il loro tempo, invenzione geniale del Settecento al termine delle sanguinose guerre di religione in Europa con la pace di Vestfalia (1648), oggi però paralizzati da una burocrazia pletorica e inefficiente e basati sul principio ormai anacronistico del «cuius regio, eius religio».
Il futuro che ci attende dipenderà dalla capacità non tanto di fare per fare, del «more and more», che può addirittura aggravare le disuguaglianze sociali ed esasperare i contrasti e quindi scatenare le guerre fra i popoli, quanto invece dalla compatibilità fra scopi desiderati e mezzi disponibili e dall’analisi preventiva dei costi umani delle riforme sociali ritenute necessarie. Il progresso tecnico, di per sé, non è in grado di garantire un futuro di fraterna uguaglianza sociale e ancor meno di riscoprire la comune umanità degli esseri umani.
Filosofi e psicologi socialmente orientati cominciano a ritenere, a mio giudizio correttamente, che il senso del limite dei nostri progenitori, greci e latini, vada prontamente recuperato: medén agan; ne quid nimis; nulla in eccesso. Le colonne di Ercole inviolabili e il salutare terrore dell’àperion, o dell’illimitato, sono ancora oggi più che mai attuali. L’illustre etimologista Giovanni Semerano, in garbata polemica, mi faceva anni fa osservare che àpeiron non era termine di origine greca, ma sumero-accadica e che significava semplicemente «fango», «terriccio». Può essere. Preferisco attenermi al significato ad esso attribuito da Platone e da Aristotele.
Sta di fatto che il mondo dominato dalla razionalità formale della tecnica, per definizione indifferente agli scopi ultimi e mossa esclusivamente dalla massimizzazione del profitto nel più breve tempo possibile, è un mondo che non ha più alcuna garanzia circa il suo futuro in termini di equilibrio ecosistemico e di sviluppo sostenibile.
Ascolta l’intervista a Franco Ferrarotti:
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