Dio è universale, è infinito. Così siamo abituati a pensare. Un filosofo dell’Ottocento diceva che di fronte alla trascendenza di Dio proviamo il sentimento della dipendenza. Di fronte all’immensità della natura, percepiamo il senso della nostra nullità, oppure il desiderio di un annullamento panteistico, il bisogno di immergersi in questo tutto divino che ci trascende. Leopardi ha espresso ambedue queste sensazioni: sia il senso del limite di fronte all’infinito (la siepe che ce ne separa) sia l’attrazione della partecipazione sentimentale (“naufragar m’è dolce in questo mare”). Queste sensazioni, normali nella nostra cultura, non lo sono però in altre.
Radicalmente diversa è la percezione ebraica di Dio. L’ebraismo non ha inventato la filosofia, come i greci. Ha inventato la profezia. Per i profeti della Bibbia ebraica, Dio non viene concepito mediante concetti, né percepito mediante il senso della dipendenza o del bisogno di annegarsi nel Tutto. Viene visto nella sua azione. Dio è colui che fonda la tua libertà e ti dà un compito. Nel momento stesso in cui lo percepisce, il profeta conosce di essere da lui inviato a compiere il suo libero dovere etico. Tu non ti annulli in lui. Se hai una percezione di Dio, è perché Dio ti manda a fare qualche cosa.
Gesù è un ebreo e ragiona ebraicamente. Per lui, Dio è colui «che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti» (Mt 5,45). Da questa percezione di Dio non deve scaturire solo un pensiero, ma un’azione che cambi la vita in modo radicale. Se Dio è colui che fa piovere sui buoni e sui cattivi, la conseguenza è subito di carattere etico: “amare i nemici” («amate i vostri nemici e pregate per i vostri persecutori, perché siate figli del Padre vostro celeste» Mt 5,44-45). Dall’azione universale di Dio deriva un’azione universale dell’uomo.
L’infinità di Dio, secondo Gesù, va agita, non pensata. E ciò nella contraddizione e nel particolare. Non si può uscire dall’individualità della propria esistenza. Gesù lo sa. Certo, agli ebrei del I secolo, l’ebreo Gesù annuncia che il loro Dio dominerà universalmente sul mondo, ma il compito del popolo di Israele è solo di convertirsi. Ad ogni singolo ebreo Gesù dice: Convertiti! E credi al mio annuncio: «il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo» (Mc 1,15). Credere a Dio non è elaborare un concetto astratto. Dio è universale, ma per l’ebreo Gesù ciò non si traduce in un’universalità pensata. Dio è universale perché regnerà universalmente (un’universalità agita). Il singolo ebreo deve agire l’universalità di Dio che regna, non pensarla. E può realizzarla in pieno rimanendo all’interno della sua singolarità: cioè convertendosi. Sarà Dio a mettere in atto la propria universalità.
Questo è il messaggio che viene da Gesù. Solo Dio possiede l’universalità. Non c’è un sistema politico per realizzarla umanamente. Ognuno è racchiuso nella propria particolarità. Per uscire da essa e adeguarsi all’universalità di Dio bisogna farla agire nell’individualità. Quando questo accade, nasce il conflitto con tutto ciò che racchiude il singolo entro i confini dei propri interessi. Non si può ubbidire a Dio, se si mantiene l’interesse per la propria famiglia. Gesù perciò esige il distacco dal nucleo domestico, la rinuncia al lavoro, la vendita di tutto quello che si possiede. Gesù colloca la bomba dell’universalità di Dio all’interno delle strutture fondamentali della società. Pensare l’infinità di Dio è per lui del tutto inutile. Essa è per Gesù l’azione di Dio che regna. Gesù inserisce l’infinito nella finitezza per farla esplodere. Crea necessariamente, e intenzionalmente, un conflitto. Perciò, il messaggio di Gesù non sono le sue teorie, ma la sua pratica. Il primo messaggio è la pratica di vita dell’itinerante.