Se la fusione tra la Repubblica e La Stampa fosse avvenuta vent’anni or sono, sarebbe stato agevole rappresentarla come un episodio di razionalizzazione capitalistica nel mondo dell’editoria. E sarebbe stato naturale sottolineare il manifestarsi di un fenomeno di gigantismo giornalistico con accenni non infondati al pericolo di concentrazione monopolistica. E come altrimenti considerare l’epifania di un gruppo che schiera una ventina di quotidiani, tra generalisti e locali, tre radio, un grande settimanale e tiene a libro paga milleduecento giornalisti?
In più, sarebbe stato degno di apprezzamento il fatto che l’espansione del gruppo Espresso – poiché di questo si tratta – coincide con l’abbandono da parte della Fiat della proprietà della testata torinese e con il proposito annunciato di lasciare anche la plancia di comando del Corriere della Sera: un segnale importante per chi aveva sempre deplorato le situazioni di sottomissione dei giornali alle esigenze del mondo industriale (e bancario).
La sfida digitale
Anche se il gruppo Espresso non può dirsi un’impresa editoriale “pura”, un simile elemento di chiarificazione avrebbe meritato una positiva menzione. Naturalmente il tutto sarebbe stato collocato nella cornice degli equilibri di potere che si riassestano secondo esigenze e regole proprie. E, per chi lo avesse voluto, sarebbe sempre stata pronta la canonica citazione di Carlo Marx per cui «attraverso la stampa il potere ascolta se stesso».
Oggi, però, la concentrazione delle testate si attua in uno scenario che impone considerazioni ben altrimenti impegnative. Il tutto avviene infatti nella stagione del tramonto della carta stampata. Come ha detto Giuseppe Vita, presidente del Gruppo Springer, il colosso dell’editoria tedesca, «a lungo termine la carta non ha futuro», per cui operazioni come quelle compiute in Italia (ma anche altrove, Germania compresa) hanno un senso se servono, per un verso, ad accorciare il fronte riducendo i costi con le economie di scala e, per un altro, a prendere tempo per affrontare la sfida dell’informazione digitale.
C’è, insomma, da esplorare un mondo ancora in gran parte sconosciuto del quale si è appena intuito il perimetro; e ciò comporta una riconversione infinitamente più profonda di quelle avvenute con il passaggio dalle trasmissioni telegrafiche a quelle via etere, dal telefax alla posta elettronica. Non è in vista l’ennesima innovazione tecnologica; ci si deve misurare con un modo di fare giornalismo del tutto inedito. Con implicazioni ancora in larga misura ignote.
Il cambio di paradigma
Anche quelli che vengono dalla generazione dei… piccioni viaggiatori non hanno avuto difficoltà eccessive a familiarizzare con il web, lo smartphone, i social. Ma c’è in arrivo un cambio di paradigma legato al dominio del “tempo reale” che pervade la modernità e dilaga nella comunicazione diffusa. Non sei più tu che cerchi le notizie per raccoglierle, selezionarle, analizzarle, commentarle e farle circolare. Sono le notizie che ti cercano, anzi ti assediano. Ed è qui che va in crisi l’altro canone delle scuole di giornalismo, quello che vuole «i fatti separati dalle opinioni».
Le attuali versioni digitali delle testate giornalistiche – i “siti” – sono poco più di una riproduzione del prodotto che si vende nelle edicole, ma sempre più funzionano a ciclo continuo assolvendo in proprio a quella che una volta era la funzione delle agenzie. Perciò sempre più ardua è la possibilità di distinguere tra ciò che è autentica notizia – il fatto, il discorso, il concetto – e l’involucro che l’avvolge; che sempre più frequentemente è l’insinuazione polemica di un talk, la sentenza fuorviante di un blogger, il perfido cinguettio interessato di un twitter. Oppure la gratuita contumelia di un Trump o di un Salvini. E, in più, ci sono le esternazioni individuali reattive – dai “mi piace” ai commenti da bar – che sono in sé insignificanti, ma talora producono un effetto valanga.
Impossibile invertire la corrente. Il giornalista, come nel rafting estremo che si pratica nei torrenti, dovrà lavorare di pagaia per farsi trasportare senza farsi travolgere. E forse si dovrà pensare a piazzare lungo il percorso qualche… isola di discernimento che introduca nella fluidità del sistema qualche solido elemento di riflessione. Ed è qui che potranno essere recuperate e reimmesse nel circuito le risorse – chi non le abbia disperse – della storia, dell’etica e delle religioni.