Le religioni, anche quelle storiche e radicate in particolari territori, non hanno più il monopolio del loro patrimonio simbolico. Sono costrette dalla globalizzazione delle informazioni a «patteggiare» coi media immagini, contenuti ed eventi che le caratterizzano. Almeno per l’Occidente. È una delle conclusioni di un colloquio internazionale su «Fatto religioso e media» che si è svolto a Parigi il 23-24 marzo e di cui dà nota J-F. Mayer sul sito www.religion.info il 31 marzo.
Il contenuto delle singole fedi e religioni rimane per gran parte ignoto. Non interessa ai media. La teologia, la spiritualità, la struttura interna, le manifestazioni locali, le figure di riferimento (a meno che non siano televisive) rimangono territori riservati alla comunicazione interna e testimoniale. In compenso il religioso è entrato di prepotenza nella sfera mediatica e nella sfera pubblica. Non vi sono elementi sottratti al possibile interesse dei media: dalla pedofilia del clero alle carte segrete del Vaticano, dalla predicazione degli imam alle comunità neobuddiste. Anche in società con un alto controllo pubblico, come quella russa, alla narrazione filo-ortodossa dei due canali televisivi principali fa da contraltare quella fornita da due siti web di informazione come Rossiya 1 e Perviy Kanal. Nella Svezia secolarizzata il «ritorno del religioso» passa, negli ultimi trent’anni, dal contesto informativo a quello del dibattito pubblico. In particolare sul tema della tolleranza (quanto le religiosi sono funzionali alla laicità e questa alla libertà religiosa) e sui conflitti che esse possono introdurre fra libertà religiosa e cultura ambientale e nazionale.
Contenuti, conflitti e temi
L’Italia, che ha una apertura all’informazione religiosa molto ampia, patisce tuttavia le stesse tendenze. La linea di progressiva secolarizzazione non è sempre avvertita nelle sue giuste misure (cf. F. Garelli, Indagine Istat sulla frequenza ai riti religiosi), un tema come quello dei movimenti ecclesiali viene oggi evocato solo in ragione di pronunciamenti politici (Neocatecumenali e movimenti: carisma e politica), la stessa proposta del giubileo della misericordia corre il rischio di non passare nella coscienza ecclesiale o di passare solo come riferimento a forme tradizionali (cf. A. Castegnaro, Giubileo: Vino nuovo in otri vecchi?). Sono limiti dell’informazione pubblica (su cui si forma in prevalenza il giudizio personale), ma talora sono riscontrabili anche nell’informazione religiosa e confessionale.
Di particolare interesse mediale sono i conflitti, sia interni alle fedi, come tra fedi e società pubblica. Si possono accennare agli scandali finanziari, al conflitto coi cattolici tradizionalisti di Lefebvre, al dibattito storico sul preteso filo-nazismo di Pio XII. Il caso più evidente a livello europeo e, non solo, è quello dell’islam. Le violenze terroristiche del radicalismo islamico (Al-Quaeda e Isis) hanno rovesciato in quindici anni la curiosità benevola con la percezione del pericolo. Vi sono situazioni, come quella francese, in cui la concentrazione ossessiva sull’islam diventa il criterio di comprensione delle altre fedi, compresa quella tradizionale del cattolicesimo. Nel Belgio l’interesse per la cultura musulmana si è trasformato, dopo gli attentati, in una crescente diffidenza. Anche l’enorme fenomeno migratorio viene frettolosamente ricondotto al pericolo islamico. Le malattie dell’informazione diventano indirizzi politici (populisti) e percezioni sbagliate della realtà. In un prossimo libro delle Edizioni dehoniane (Dare i numeri), N. Pagnoncelli, sottolinea lo sfasamento fra realtà delle cifre e percezione sociale a proposito dell’islam in Italia. Quanti sono? Le fonti statistiche più accreditate vanno dal 2% (un milione) per l’Istat al 4% (due milioni) per il rapporto annuale della Caritas sui migranti. «Ebbene, gli italiani ritengono che il 20% della popolazione residente in Italia sia di religione islamica: vorrebbe dire una persona su cinque per un totale di 12 milioni di musulmani».
L’informazione di Chiesa
Due altri elementi raccolgono l’interesse mediale: da un lato i fenomeni della tradizione religiosa delle singole fedi e, dall’altro, i problemi e gli scandali che le comunità credenti debbono affrontare. Non è casuale che il buddismo abbia in Occidente una attenzione prevalentemente legata al suo insegnamento etico e alla sua dimensione psicologica (indebitamente tradotta come benessere personale), mentre in Cina sia questione di statualità, o meglio di controllo dello stato, come del resto avviene anche per le altre fedi riconosciute (taoismo, islam, cattolicesimo e protestantesimo). Le richieste di indipendenza o di autonomia del Tibet sono decisive per la proposta di una immagine mediale negativa della fede e del Dalai Lama.
L’informazione di appartenenza confessionale e religiosa ha, in questo contesto, una importante funzione: rendere al meglio la comunicazione della propria identità e tradizione e prender sul serio e andare in profondità in quelle degli altri. Sia che si tratti di informazione istituzionale o di utilizzo di piattaforme diverse (cartacee o web), essa ha il compito di ricordare alle Chiese e alla fedi la preziosità di un contesto democratico e laico in ordine alla libertà di fede e di aprire la laicità oltre i confini impropri della sua ideologizzazione, per dare modo all’ethos civile di arricchirsi dell’alimentazione morale e spirituale delle fedi.
Il cambiamento dei mezzi comunicativi sta modificando rapidamente le figure professionali del giornalista come del ricercatore sui temi religiosi. Il primo è sottoposto alla contrazione dei tempi, alla difficoltà della verifica, alla contrazione degli spazi di professionalità economicamente riconosciuta. Il secondo è esposto all’emarginazione accademica della componente umanistica, ai condizionamenti di una laicità divisiva, all’esposizione mediale che lo trasforma da osservatore a protagonista del dibattito.
Il rarefarsi di una socializzazione religiosa e di un radicamento popolare delle fedi affidano ai media una parte rilevante dell’immagine della Chiesa e delle fedi. «In un contesto secolarizzato e religiosamente diversificato, la presenza di attori religiosi suscita la curiosità o l’inquietudine: i media se ne fanno eco, ma contribuiscono anche a evidenziare alcuni soggetti e a farne elementi del dibattito pubblico. I media non solo soltanto osservatori, ma anche attori» (J.F. Mayer).