Non c’è niente di meglio di un buon film d’autore iraniano per indagare nella difficoltà di ogni scelta che abbia a che fare con l’etica. E l’ultimo film di Mohammad Rasoulof, Il male non esiste, va proprio in questa direzione.
Perché, tutt’altro che limitandosi ad affrontare il tema della pena di morte nella Repubblica islamica, apre a quella dimensione universale delle scelte in cui ognuno di noi è solo di fronte alla propria coscienza, e non solo in quei disgraziati Paesi che non hanno ancora abolito la pena capitale.
Certo, la denuncia politica di Rasoulof è evidente soprattutto quando – oltre ad evidenziare la barbarie di un’uccisione confusa con l’esercizio della giustizia – il regista apre un interrogativo su quale sia la natura della colpa di chi viene giustiziato: se cioè sia un assassino, uno spacciatore di droga – fino a pochi anni fa bastava trafficare in piccole quantità per finire sulla forca in Iran – o solo un oppositore politico accusato di reati come “ribellione contro Dio”, inaccettabile assurdità non solo per la nostra cultura giuridica ma anche per tanti iraniani.
Ma sarebbe troppo facile dire che il film di Rasoulof – vincitore dell’Orso d’Oro al festival di Berlino del 2020 – è solo un’opera di critica politica a firma di un autore che ha sempre avuto guai con la giustizia iraniana per la sua attività cinematografica.
Come il due volte premio Oscar Ashgar Farhadi ci ha spesso insegnato, il cinema d’autore iraniano ha diversi livelli di lettura. E così il film di Rasoulof parte sì con il dramma dei giovani militari di leva assegnati ai bracci della morte e al terribile compito di togliere lo sgabello da sotto i piedi di chi viene impiccato, ma va molto oltre quando si interroga sulle conseguenze cui va incontro chi si ribella a un ordine che fa a pugni con il nostro senso etico.
Quanto siamo disposti a pagare per non piegarci ai nostri superiori o all’obbligo di leggi che non condividiamo? Siamo pronti a pregiudicare per questo, senza appello e per sempre, la possibilità di una vita normale, di un lavoro normale, di una famiglia e di affetti normali? E non solo: quali conseguenze avranno, queste nostre scelte, sulla vita delle persone che amiamo e che ci sono vicine?
I protagonisti dei quattro episodi del film danno risposte diverse a queste domande: il padre di famiglia vive una vita completamente scissa, diviso tra una quotidianità da brav’uomo e le sue livide albe in carcere, quando gli basterà premere un bottone, mentre si prepara la prima colazione, per far penzolare quei piedi scossi dagli ultimi interminabili secondi di vita, mentre scorre dai loro pantaloni l’urina che le vesciche non possono più trattenere.
E i giovani di leva lottano con l’istinto ad agire una rocambolesca fuga, fucile in pugno contro compagni e superiori, pur di non uccidere con le proprie mani. Ma quale che sia la loro scelta – tra l’obbligo imposto di fare il male e il caro prezzo del non farlo – questa avrà ripercussioni drammatiche sul loro futuro: amori che rischiano in entrambi i casi di perdere, professioni che non potranno esercitare e figli che non potranno crescere.
L’attimo di una scelta ha conseguenze lunghe quanto una vita e l’innocenza si perde in ogni caso, anche se il dolore di una perdita può trovare pace nel nutrire ogni giorno, con una pentola di cibo, una volpe che la necessità di uccidere, ma per vivere, ce l’ha nel suo biologico destino.
Se in questi 70 anni di pace e democrazia in Europa abbiamo dormito, senza accorgerci che le nostre guerre venivano combattute per procura lontano dalle nostre vite, la guerra di Putin in Ucraina ci ha bruscamente risvegliato: per chi ora combatte negli eserciti o siede ai tavoli della diplomazia o ha ancora la fortuna di farsi un’opinione leggendo un giornale sul divano, è tornato anche da noi il tempo di queste terribili scelte.
- Pubblicato sulla rivista Confronti.