Il cinema è ormai divenuto non solo un’occasione preziosa di aggregazione e approfondimento culturale nella vita delle parrocchie, delle associazioni religiose e negli enti didattici di ispirazione cristiana, ma è utilizzato come strumento di introduzione per il cammino liturgico, la preparazione a eventi pastorali, la meditazione individuale e collettiva finalizzata a gesti sacramentali. Prendiamo qui in considerazione alcune pubblicazioni sul tema.
Il Sabato Santo
Don Fabio Landi, responsabile dell’Ufficio di pastorale scolastica della Diocesi ambrosiana e docente al Liceo classico Parini di Milano, mette a frutto la sua licenza in Teologia sistematica, rielaborando in forma scritta le introduzioni al Sabato santo da lui preparate, per tre anni consecutivi, a beneficio di una comunità cristiana. La visione collettiva dei film, il commento e la probabile discussione in gruppo hanno incarnato nell’attualità l’annuncio evangelico di liberazione, che pretende di essere contemporaneo a ogni uomo, il quale elevi al cielo il suo grido di sofferenza.
Le considerazioni dell’Autore sono ora raccolte in un libro intitolato Tre film sul Sabato santo, distinto in cinque parti e articolato in cinque icone rapinose[1]. Ci riferiamo anzitutto ai tre film commentati in modo meticoloso e vivido dall’Autore: il brano diretto da Sean Penn nella pellicola 11’09”01, una pellicola collettiva uscita nel 2002 e dedicata all’attacco terroristico delle torri gemelle; The 25th Hour – La 25a Ora, di Spike Lee, 2002, sulle ultime ore di attesa di un giovane condannato, prima dell’imminente prigionia; Les innocentes, di Anne Fontaine, del 2016, distribuito in terra italiana come Agnus Dei: visitando le suore di un convento polacco, nel 1945, una giovane dottoressa (non credente) scopre la terribile verità di uno stupro collettivo.
Segue un’analisi del video di Bill Viola Earth Martyr, 2014, in cui viene fatta girare al contrario – e quindi con lentissimi effetti ascensionali – la sequenza in cui una massa di terra cade sul corpo di un uomo, che ne viene progressivamente piegato, schiacciato e poi sepolto[2]. Vogliamo menzionare infine la splendida copertina del volume, con la rappresentazione di un particolare del Lamento sul Cristo morto, di Andrea Mantegna, 1475-1478 circa, Milano, Pinacoteca di Brera, in cui la raccorciata prospettiva “dai piedi” documenta il decesso di un corpo adagiato orizzontalmente e recante i plastici segni tanatologici della morte cruenta. Si tratta di un fotogramma citato ripetutamente nella storia del cinema.
Tesi di fondo di Landi è che il “breve tempo” che il corpo del Nazareno passa nel sepolcro (come viene spiegato a p. 8), il tempo che intercorre tra la morte e la risurrezione (prima che, col quarto giorno, iniziasse la decomposizione, secondo la visione dell’epoca), è un tempo spesso svalutato sul piano devozionale, rimosso a livello di scavo teologico e parzialmente ignorato quale emblema fondativo del passaggio che conduce dalla morte alla vita.
Appunto – ci chiediamo con l’Autore – di che passaggio si tratta? Come pensare il vuoto legato alla scomparsa del Maestro? Come interpretare sul piano della sequela di fede il carattere aliturgico che connota il venerdì e il sabato della settimana autentica?
Come intendere (aggiungeremmo da parte nostra) il “riempimento” di tale iato con l’impiego del simbolo apostolico della «discesa agli inferi»[3]? Che rapporto esiste tra questo deficit riflessivo e l’uso, a volte troppo facile, “troppo umano” (in senso nietzschiano) della formula “tornato alla casa del Padre”, una formula che dovrebbe lenire l’angoscia dei fedeli nelle liturgie funebri?
Landi ha il merito di puntare lealmente l’attenzione critico-letteraria su tre drammatici momenti di passaggio. Il tragico crollo di una torre a New York apre paradossalmente uno spiraglio alla luce solare che ravviva le piante da vaso nel micro-appartamento in cui un vedovo intesse delicate conversazioni con la memoria della moglie scomparsa.
Condannato a una detenzione lunga e pesante, un giovane spacciatore si domanda quale decisione sia più congrua per il bene della propria esistenza: fuggire, consegnarsi alla giustizia, suicidarsi.
Nel terzo film, la violenza sessuale perpetrata su alcune suore di clausura, in tempo di guerra, impone alle vergini per vocazione di venire a patti con le vite innocenti che crescono nei loro grembi: si può accettare questa imprevista maternità, lasciarsi cadere nella follia da trauma, soffocare il frutto della violenza.
L’Autore esprime un vissuto partecipativo che è empatico sul piano psicologico e solidale su quello spirituale e, partendo dalla provocazione di queste storie paradossali, egli accompagna il lettore in una ricerca di senso. Non la negazione infantile della contraddizione, né l’attesa infantile di un happy end a poco prezzo, né la cinica logica della retribuzione, né la dissociazione spiritualistica tra una terrestre valle di lacrime e un cielo beato, né la sete di vendetta o l’autoflagellazione possono sostenere la transizione liturgica entro il silenzio insostenibile del Sabato Santo.
Conta invece l’opzione di resistenza al male, sull’esempio di un giusto sofferente che vince il tragico attraversandolo, invadendone il territorio, addomesticandone il pungiglione. Sì, ci può essere una resa all’inevitabile strapotenza del male (p. 75), ma non si tratta di rassegnazione pavida. L’avversario ci irride? Ci troverà pronti alla sfida, indipendentemente dagli esiti materiali a breve termine.
Risignificazione
La buona notizia cristiana non coincide con la dimenticanza dell’offesa subita, ma con una risignificazione, come afferma Landi. Occorre narrare da capo ciò che ci è venuto addosso (questa è la lezione del cinema) e inventare (nel senso latino di invenire, trovare, scoprire) una trama che ospiti il trauma e prepari a una riabilitazione apparentemente improbabile.
Nonostante e attraverso l’irruzione assurda del male, il credente (e con lui ogni spettatore laico di queste pellicole di “passione”) rilegge la sua prima alleanza col Dio della vita e chiede aiuto nel faticoso dolore di nascere una seconda volta (il disagio del risveglio di cui Landi parla a p. 34), nello sforzo di capitalizzare ogni spiraglio di luce, nel tentativo di fruire di qualsiasi frammento di speranza. La ferita resta e si fa sentire nei corpi senescenti, abusati, violentati. Non c’è un balsamo magico a disposizione. “La fede è 24 ore di dubbi e un minuto di speranza” confessa suor Marie in Agnus Dei.
La cicatrice si gonfia e duole, mentre ripara e copre la lesione cutanea. Dio è lì, in questo nuovo inizio. Il cinema mette le mani sul costato lacerato, per sempre deturpato, di una vittima lasciata sola. Il “dio” del cinema vuole ricreare lo sguardo di un fantoccio di fango, che attende l’alito di una nuova visione. Dio desidera che l’uomo, suo alleato, abbia cura di Lui (come di un pellegrino che va ospitato, o un malato che attende una visita) e, invocandolo, pianga le doglie di ogni ascensione, di quell’imprevista corrente verticale che – come nel video di Bill Viola – trascina inspiegabilmente in alto verso un’atmosfera respirabile colui che stava morendo d’asfissia.
“Risignificare” è la proposta di Landi: “La morte è vinta tirandola dentro nel gioco e travestendola, come ogni altra cosa, a seconda delle necessità” (p. 115). Il lettore è ovviamente autorizzato a chiedere un supplemento d’indagine.
Che cos’è l’atto di ri-significare? Il travestimento linguistico (in cui i bambini di Agnus Dei sono istintivamente abilissimi, coi loro giochi di fantasia) è in grado di coprire le membra dolenti o si lacera come ogni provvisorio rattoppo applicato a un vestito vecchio? La mutazione affettiva lenisce come un mantello (un “pallio”, nel senso della medicina palliativa) oppure conferisce una nuova identità morale? Lo spettatore greco percepiva a teatro moti di orrore e pietà per l’eroe schiacciato da un destino insostenibile, deciso da dèi lontani.
Che cosa motiva l’odierno fruitore di cinema a sperare in un plot (trama, complotto, progetto) di salvezza, quando il film noir ha annunciato sin dall’inizio che non ci sarà scampo e la vittima cadrà ancora, per sempre, lungo la sua via crucis? Il testo di Landi impegna la teologia a pensare da capo lo scandalo del male e a porre in tensione il lieto annunzio cristiano con le narrazioni implacabili, che spezzano le tradizionali soluzioni offerte dall’ottimistica teodicea leibniziana.
Il cinema dà a pensare. Molti libri hanno analizzato le teorie filosofiche implicite nei film, hanno esaminato le relazioni estetiche tra le pellicole e i moduli artistici dell’arte contemporanea, hanno indagato le rappresentazioni cinematografiche di quelle esperienze vitali, che squassano le regole del conformismo.
Poco cinema nella teologia
Negli ultimi cinque anni ci è capitato di recensire per La Civiltà Cattolica una decina di pubblicazioni italiane in materia. Parallelamente abbiamo tentato un’esplorazione sul senso filosofico della narrazione cinematografica in quattro monografie specifiche (le citazioni sono in Teologia del cinema) e dal giugno 2013 teniamo mensilmente una rubrica e un blog “Ciak Bioetica” sulla rivista Il Messaggero di Sant’Antonio, Padova.
Molto meno si è prodotto – ci sembra – in ambito teologico. Troppo presto è venuto a mancare uno studioso come Davide Zordan (1968-2015) di cui ricordiamo ancora l’illuminante scritto “Ciò che i film sanno di noi”[4]. Un titolo merita però una citazione, quale felice eccezione.
Nell’ottobre 2020 è stato stampato il breve, illuminante libro del cardinale Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, Come in uno specchio. Per una teologia del film[5], scandito in tre capitoli: “Per una teologia del cinema”, “Una galleria di registi: Dreyer, Bresson, Bergman, Tarkovskij, Buñuel” e “La Chiesa e il cinema”.
Come in uno specchio inaugura una benvenuta collana “Lo spirito del cinema”, diretta da Mons. Davide Milani, volta a indagare la testimonianza del cinema in rapporto all’esperienza del sacro. Ravasi documenta e spiega sul piano esegetico e dottrinale (dal libro della Sapienza fino alle lettere di Paolo, dall’impianto narrativo del primo kerigma fino al secondo Concilio di Nicea) la favorevole propensione accordata dal cristianesimo in merito alla rappresentabilità del sacro.
Il filmico e il religioso sono del resto linguaggi performativi, che non solo informano, ma attuano e instillano efficacemente nel fruitore il messaggio che viene rappresentato. Ravasi riconosce che anche “un film di tema e taglio profano può essere di altissima impronta religiosa” (p. 14) e analizza le opere di una serie di cineasti impegnati a esplicitare il senso trascendente che la realtà storica custodisce (mettere in scena è, a suo modo, un mettere in ordine – p. 18 – citando Bresson).
Il regista Bergman evidenzia in particolare il “grumo oscuro” del credere (p. 24), la voce misteriosa e mostruosa che accompagnò Abramo sul monte Moria, la parola del sagrestano di Luci d’inverno, che ricorda al pastore, immerso in una dolente crisi vocazionale, il dramma di Cristo sulla croce[6]. La settima arte, conclude Ravasi, è ormai riconosciuta come “uno specchio del tempo” e assieme come una via e un’occasione d’annuncio evangelico (p. 36; quando pubblicammo nel luglio 2020 il nostro volume Teologia del cinema[7], menzionammo proprio una conferenza tenuta già nel 2013 dal card. Ravasi, sui temi a noi cari, presso l’Università San Damaso di Madrid, p. 115. Della ricezione della nostra monografia avremo modo di parlare ancora su questo sito).
Paolo M. Cattorini è professore ordinario di Bioetica clinica presso l’Università degli Studi dell’Insubria a Varese.
[1] F. Landi, Tre film sul Sabato Santo, Bologna, EDB, 2021, 125 pagine, 12 euro.
[2] I milanesi hanno potuto apprezzare l’opera nella Cripta del Santo Sepolcro tra il 2017 e il 2018. L’artista newyorkese aveva originariamente realizzato nel 2014 quattro video-installazioni per la Saint Paul Cathedral di Londra, rielaborando le tradizionali immagini del martirio e associandole ai quattro elementi cosmici fondamentali: terra, aria, fuoco e acqua. L’agiografia è rigorosamente evitata e la spettacolarizzazione annullata: lo spettatore si identifica per sette minuti con le vittime di un universo materico le cui forze sono imprevedibili e scioccanti.
[3] H. U. von Balthasar, Teologia dei tre giorni, Brescia, Queriniana, 4° ed. 2000, precisa a p. 131 che Gesù è realmente morto e la sua condizione è di ptôma, cadavere (Mc 15,45), cosicchè non si deve parlare di una sua nuova attività nell’al di là. Egli è solidale con i morti e con la loro condizione di passività e assenza di comunicazione intersoggettiva. Pertanto “la risurrezione e l’ascensione vengono presentate in primo luogo come evento passivo. Il soggetto attivo è Dio (il Padre)” (ivi, p. 133). Non c’è nel Nuovo Testamento alcuna traccia di una lotta nel mondo sotterraneo e l’andar verso le anime in carcere significa stare presso di loro, cosicchè la redenzione “si manifesterebbe ed eserciterebbe i suoi effetti nel ‘regno’ dei morti, ma sarebbe fondamentalmente conclusa sulla croce (consummatum est!)” (ivi, p. 134) .
[4] D. Zorzan, “Ciò che i film sanno di noi. Il cinema, la teologia e gli studi culturali sulla religione”, Studia Patavina, 2014, n. 61.
[5] G. Ravasi, Come in uno specchio. Per una teologia del film, Roma, Edizioni Fondazione Ente dello Spettacolo, 2020, 46 pagine, 8 euro.
[6] Luci d’inverno, regia di Ingmar Bergman, Svezia, 1963.
[7] P.M. Cattorini, Teologia del cinema. Immagini rivelate, narrazioni incarnate, etica della visione, Bologna, EDB, 2020, 131 pagine, 15 euro.