Come ha scritto Salvatore Veca, “possiamo dire che se esercitiamo il senso della possibilità sul passato, noi non ne mettiamo in discussione l’irrevocabilità, ma ci mettiamo alla prova con il ventaglio di possibilità interpretative del passato. Ecco perché possiamo anche dire che il passato è concettualizzato come un repertorio o archivio di possibilità.
Ed è in questo senso particolare, come hanno sostenuto alcuni storici, che il passato assume un sorprendente alone di imprevedibilità e finisce per assomigliare a un romanzo esposto a una pluralità di interpretazioni e di letture nello spazio e nel tempo”, senza con ciò sostenere che non vi siano fatti, ma solo interpretazioni[1].
Non solo: i fatti già accaduti hanno una loro “creatività” intrinseca, per dir così: si pensi all’eterogenesi dei fini di vichiana memoria. E il passato non comprende solo eventi compiuti, situazioni dispiegatesi fino in fondo, quanto, soprattutto, tentativi svolti a metà, abbozzi, conati, vagiti prontamente repressi. E ciò è parte integrante dell’“archivio” e contribuisce a sua volta ad ampliare il ventaglio delle possibilità.
Non a caso, Giacomo Marramao, accanto alla memoria-funzione, alla base dei valori identitari e “di un orizzonte di senso della collettività”, individua “la memoria-archivio, che conserva il non-funzionale, l’escluso, il ‘superato’, ma con esso anche ‘il repertorio delle occasioni perdute’, le alternative emarginate e sconfitte della storia individuale e collettiva o le possibilità inattuate, ‘sommerse’ e rimaste allo stato di latenza”[2].
La storia, dunque, comprende anche il non detto, il non fatto, l’incompiuto, l’appena sussurrato o vagheggiato: tutto ciò forma come un alone, come l’intorno del possibile che avvolge gli avvenimenti.
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Così papa Eugenio IV era in tensione con i conciliaristi del Concilio di Basilea, iniziato nel 1431. “Il Concilio, preso atto della vittoriosa resistenza hussita, invitò i loro rappresentanti a inviare una propria delegazione. Eugenio rispose duramente intimando lo scioglimento dell’assemblea. I padri si rifiutarono di obbedire, aprendo una controversia che si chiuse soltanto agli inizi del 1433, quando il papa, nonostante che il Concilio avesse emesso già alcuni decreti che limitavano i suoi poteri, dové autorizzarlo, sia pure con una formula ambigua, a continuare i suoi lavori a Basilea”[3].
In seguito, il pontefice coglie l’occasione offerta dall’opportunità di un accordo con l’imperatore bizantino e con la chiesa greco-ortodossa al fine di contrastare l’avanzata dei turchi. I bizantini ortodossi finiscono per scegliere come interlocutori privilegiati il vescovo di Roma e la minoranza papalista di Basilea.
Mentre il Concilio di Basilea prosegue, per iniziativa soprattutto della maggioranza conciliarista, Eugenio decide di trasferirne i lavori – accogliendo i bizantini – a Ferrara: si tratta in realtà di una sorta di Concilio parallelo, che suscita tuttavia l’attenzione dei più, vista la possibilità che si intravede di superare lo storico scisma d’Oriente.
Si conferma e, insieme, si delinea con chiarezza il diverso atteggiamento della chiesa di Roma rispetto alle “eresie” d’Occidente e allo scisma d’Oriente. Il rifiuto del papa di interloquire con gli hussiti e la prontezza con la quale egli gestisce il dialogo con gli ortodossi troveranno varie conferme nei secoli successivi, quando l’ostacolo davvero insormontabile all’unità dei cristiani apparirà, per Roma, la Riforma protestante, con le comunità di fede che ne scaturiranno, neppure riconosciute come chiese.
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Il nuovo Concilio inizia a Ferrara il 5 febbraio 1438 e, dal 9 aprile, vede la presenza dell’imperatore bizantino, con una folta delegazione. Il 10 gennaio 1439 si trasferisce a Firenze. Decenni dopo, Marsilio Ficino avrebbe scritto che, in quell’occasione, Cosimo il Vecchio de’ Medici avrebbe ascoltato il teologo e filosofo neoplatonico del Peloponneso Giorgio Gemisto Pletone, della delegazione imperiale, concependo così il proposito di fondare a Firenze una nuova accademia, dedicata allo studio del pensiero platonico.
È interessante rilevare che il dotto Pletone fosse contrastato dal patriarca di Costantinopoli, Giorgio Scolario, che fece bruciare gran parte della sua opera sulle Leggi, con l’accusa di paganesimo, risparmiandone solo una parte, a riprova, nella sua prospettiva, della fondatezza dell’accusa. Pletone, poi, era uno studioso degli Oracula Chaldaica, attribuiti agli allievi del saggio persiano Zoroastro, depositari della sapienza più antica, giunta nel mondo greco, secondo lui, per il tramite di Pitagora.
Arduo era, durante il Concilio, ricomporre le divergenze ecclesiologiche – in particolare quella sul primato del vescovo di Roma nel rispetto dell’autonomia della chiesa d’Oriente – e teologiche, simboleggiate dalla questione del Filioque (con tale formula, come è noto, il Credo della chiesa di Roma anteponeva il Figlio allo Spirito santo).
Il futuro cardinale Bessarione, allievo di Pletone, della delegazione ortodossa, fu fra coloro che più si spesero per l’accordo, per intima convinzione basata su testi plurisecolari. Alla fine si giunse all’intesa con espedienti linguistici piuttosto fumosi e con formule acrobatiche. Un’intesa osteggiata dal clero, dai monaci e dai fedeli ortodossi, che mai la sentirono propria, vivendola come un’annessione da contrastare.
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E qui è uno degli insegnamenti di quel Concilio, da tenere a mente come un promemoria: il dialogo e, eventualmente, l’accordo fra tradizioni cristiane differenti devono coinvolgere e includere il popolo dei fedeli, raccoglierne le spinte e le istanze, permettergli di esprimere dubbi e timori.
È ovvio, si tratta di un evento tardo-medioevale, lontanissimo, ad esempio, da acquisizioni che, nell’universo cattolico, matureranno solo a iniziare dal Concilio Vaticano II, negli anni Sessanta del Novecento. Guai a non situare storicamente i fatti. Eppure ciò che quel conato ecumenico può insegnarci ha una portata universale, permanente.
Esso è poi la riprova dell’essenziale contributo dell’Oriente nella definizione e nei passaggi cruciali delle vicende dell’Occidente. Vari e complessi sono gli influssi e i condizionamenti che incisero su quel ricco, variegato, talora contraddittorio e mutevole fenomeno definito Umanesimo e Rinascimento, ma senza dubbio il Concilio di Ferrara e Firenze ne scrisse una pagina significativa.
Quell’incontro di storie, di lingue e di culture differenti, quella ricerca condivisa – non va trascurato, fra gli altri, il ruolo, fra i padri conciliari latini, del camaldolese Ambrogio Traversari, fine conoscitore della patristica greca – stimolarono a Firenze e altrove il recupero della tradizione platonica e neoplatonica e lo sforzo di collocarla lungo il solco della più antica sapienza orientale.
[1] S. Veca, Il senso della possibilità. Sei lezioni, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 123-124, corsivo mio.
[2] G. Marramao, Sulla sindrome populista. La delegittimazione come strategia politica, Lit Edizioni, Roma 2020, pp. 41-42.
[3] C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P.C. Pissavino, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 166.
Mi consta che il Concilio di Firenze abbia riconosciuto, tra l’altro, le “relationis oppositio” [Decretum pro Iacobitis (4.II.1442), DS 1330], ossia che nella Trinità una sola è la sostanza, una l’essenza, una la natura, una la divinità, una l’immensità, una l’eternità, e tutte le cose sono una cosa sola, dove non si opponga la relazione. E che che sia greci che latini ammettono l’esistenza di relazioni in Dio: solamente le relazioni introducono distinzione in Dio. Il dubbio che nasce dall’articolo riguarda l’interpretazione di questo decreto: gli scavi interpretativi di tale decreto riconoscono ancora le “relationis oppositio”? Per la teologia attuale non sarebbe irrilevante sminuirne l’importanza.