L’anno 1968 decretò la fine di un’epoca e la nascita di un’altra. In questo frangente la figura del padre, che era al centro della vita familiare, comincia a perdere colpi. Tra contestazioni e rivendicazioni, alla fine degli anni 60 si impone un nuovo modo di pensare la famiglia e la società senza i padri, quella che lo studioso Ferrarotti ha definito come gli anni dell’«incubo paterno».
I giovani degli anni 70 detronizzarono il padre dicendo che tutto ciò che sapeva di paterno diventava oppressivo, fu così che si impose una radicale rivolta contro il padre fino a decretarne la morte.
Questi giovani sono vissuti e cresciuti con un profondo rancore, una sorta di battaglia interiore contro il padre. Un’intera stagione senza il padre ha portato la futura generazione a sottovalutare e a “disprezzare” tanto la figura paterna quanto tutto ciò che attorno al padre circolava.
Un’intera generazione che ha divorato il padre, annullandolo. «Chi divora i padri – ha scritto Pietro Citati – finisce per generare dei padri molto più mostruosi che pretendono obbedienza fino alla morte».
La trasformazione della società, gli stili di vita, lo stravolgimento dell’idea stessa della famiglia hanno aggravato ancora di più la figura del padre che rimane, nonostante tutto, debole e indifeso. Oggi si parla tanto dell’assenza dei padri. La loro assenza «è tanto più sentita in quanto la famiglia è divenuta nel corso dei secoli un ambiente di arricchimento affettivo e la funzione del padre è stata fortemente contrassegnata da un elevamento della sua portata affettiva» (G. Mendel).
Nostalgia del padre
Una società senza padri sarebbe disastrosa e mortale. I figli di oggi hanno bisogno del padre come ogni uomo ha bisogno di respirare, di luce, di acqua… I padri oggi si sono trasformati in papà, dimenticando di dare fondamento all’identità paterna. Emblematica è la descrizione che fa dei padri lo scrittore ceco Milan Kundera: «Gli uomini si sono papaizzati, non sono più padri, ma solamente dei papà, ossia dei padri a cui manca l’autorità di padre».
La scrittrice laziale Elena Bono nel romanzo Una valigia di cuoio nero sottolinea la crescente sensazione della società senza padri: «[…] noi tra gli stenti e poche croste di pane, eravamo tranquilli, senza paure, sotto l’ala del Padre […]. Adesso siamo tutti disperati, inseguiti come Caino, non tanto perché abbiamo ucciso Abele, ma perché abbiamo perduto il Padre».
Nell’Odissea di Omero Telemaco è il figlio di Ulisse. Il padre è costretto ad abbandonarlo per partire per la guerra di Troia. Resterà lontano da Itaca per vent’anni. Telemaco lo attende da sempre. La sua casa è invasa dai Proci, giovani principi senza scrupolo e avidi di potere. Ulisse torna, riabbraccia il figlio Telemaco e prepara con lui la vendetta.
Il desiderio di Telemaco è il ritorno del padre, simbolo della legge e della stabilità della vita. «Se gli uomini potessero scegliere ogni cosa da soli – dice Telemaco –, per prima cosa vorrei il ritorno del padre». Il desiderio di Telemaco non è desiderio nostalgico che il padre ritorni, ma che si mostri “padre”. Nella notte dei Proci si accende la speranza del desiderio del figlio per il padre perché possa illuminare l’oscurità della depravazione e del nulla. In Ulisse, Telemaco ri-scopre la speranza della vita e la gioia della famiglia.
San Giuseppe, il padre-custode
La festa di san Giuseppe, che abbiamo celebrato di recente, è come un affacciarsi sul balcone della speranza del ritorno del padre evaporato, rottamato, assente e sabbioso. Lui, l’umile e il semplice carpentiere di Nazareth, diventa custode e custodito, testimone della paternità più grande.
In Giuseppe di Nazareth la Chiesa non celebra un devozionismo mieloso; al contrario, Giuseppe, uomo giusto e timorato di Dio, diventa il custode dell’incarnazione, il padre terreno del figlio di Dio. L’umile padre putativo di Nazareth custodisce e preserva il mistero dell’incarnazione. Contro la legge di Mosè, per rivelazione divina, Giuseppe protegge e custodisce la fragilità e la grandezza del mistero del Dio fatto uomo nel seno della Vergine Maria. Forse, lui non sa, ma accogliendo il frutto del seno della Vergine Maria, diventa il custode dell’inizio della redenzione. San Tommaso d’Aquino commentando il passo di Matteo dirà che Giuseppe riceve la rivelazione di Dio perché è un uomo di fede.
Papa Francesco, nell’esortazione sull’amore nella famiglia dice chiaramente che il dono del figlio inizia con l’accoglienza e la custodia lungo la vita (cf. Amoris laetitia 167); da qui l’invito ai padri a non rendere orfani i loro figli con la propria assenza e debolezza educativa.
Per papa Francesco oggi i padri devono recuperare una chiara e felice identità paterna per il bene integrale della famiglia. I figli – scrive papa Francesco – «hanno bisogno di trovare un padre che li aspetta quanto ritornano dai loro fallimenti […] non è bene che i bambini rimangano senza padri e così smettano di essere bambini prima del tempo» (AL 176).
Abbiamo bisogno di riscoprire e dare valore alla figura del padre. Papa Francesco è il padre dei padri (pater patrum), ci sta insegnando ogni giorno cosa significhi essere padre. In san Giuseppe, patrono della Chiesa, ci indica la custodia come valore per la nostra vita.
Giuseppe di Nazareth diventa custode con umiltà, fedeltà e costante presenza: «Giuseppe è “custode”, perché sa ascoltare Dio, si lascia guidare dalla sua volontà e, proprio per questo, è ancora più sensibile alle persone che gli sono affidate, sa leggere con realismo gli avvenimenti, è attento a ciò che lo circonda, e sa prendere le decisioni più sagge».