Il 22 maggio 1874, nel primo anniversario della morte di Alessandro Manzoni, aveva luogo, nella chiesa di San Marco di Milano, la Messa di Requiem di Giuseppe Verdi diretta dallo stesso autore, con celebrante monsignor Giuseppe Calvi. Matteo Marni (Milano, 1994), dottorando di ricerca in Storia della Musica presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ha dedicato all’evento lo studio pubblicato col volume La vera storia del Requiem di Verdi, Giampiero Casagrande editore (aprile 2024). L’intervista è stata curata da Giordano Cavallari.
- Dottor Marni, cosa avvenne in quel 22 maggio del 1874 nella chiesa di San Marco di Milano?
La mattina di quel giorno fu celebrata una messa di suffragio per l’anima di Alessandro Manzoni nel primo anniversario della sua dipartita; le celebrazioni di suffragio furono da sempre consuetudine cattolica e tutti i requiem che conosciamo, senza eccezione, sono stati composti per queste specifiche occasioni. Questa volta il defunto era particolarmente illustre, così come il musicista compositore.
La consultazione delle fonti coeve ha permesso di ricostruire l’evento, le modalità in cui si è svolto, di spiegare la particolarità della forma del rito adottata (Messa secca) e anche di superare fraintendimenti e interpretazioni fantasiose restituendo l’oggettività dei fatti, che può essere letta sia come racconto veritiero di cosa realmente avvenne quel giorno, sia come evento inserito in una più articolata serie di vicende storiche che hanno avuto risonanza e ripercussioni locali, cittadine, nazionali e internazionali.
- Si è trattato di una vera e propria liturgia?
La prima esecuzione del Requiem di Verdi trovò ospitalità nel contenitore di una Messa, non fu una commemorazione o un concerto camuffato da celebrazione liturgica, come alcuni commentatori hanno sostenuto anche in tempi recenti. La liturgia cattolica è molto cambiata dopo le riforme del Concilio vaticano II (1959-1963) tanto che oggi il rito antico non ci è più familiare; studiarlo rende possibile comprendere come la musica di Verdi vi abbia trovato posto rispettando le rubriche del rituale.
Non potendo e non volendo rinunciare al contenitore liturgico, gli organizzatori e il celebrante, di concerto con l’arcivescovo di Milano, optarono per la celebrazione di una ‘Messa secca’ per fare convivere un requiem di rito romano all’interno di una messa in rito ambrosiano senza incappare in irregolarità e abusi che un rito, per definizione, non dovrebbe ammettere. Nello specifico la ‘Messa secca’ è una Messa valida a tutti gli effetti, anche se manca di offertorio, consacrazione e comunione.
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- Quali problemi sono stati affrontati – ed evidentemente superati – per l’esecuzione liturgica? Penso alle voci femminili e al rito ambrosiano.
L’immagine, cara a certa storiografia faziosa, di una chiesa oscurantista che vieta alle donne di cantare nella liturgia, non trova conferme nelle consuetudini storiche (si pensi, ad esempio, al canto delle monache nelle proprie chiese o al caso degli ospitali nella Venezia di Vivaldi), ma piuttosto rivela una indebita sovrapposizione di piani e impianti culturali: lo spauracchio contemporaneo della par condicio e delle quote rosa è sconosciuto alla società ottocentesca e l’impossibilità – non fisiologica ma di pubblica opportunità – non era allora avvertita con particolare insofferenza.
Le testimonianze archivistiche restituiscono la preoccupazione di Verdi non tanto e non solo per la partecipazione delle donne, bensì per la conciliazione tra il testo romano del suo Requiem e la celebrazione officiata secondo il rito ambrosiano, proprio della chiesa milanese.
L’espediente della Missa sicca permise ancora di uscire dall’imbarazzo: potendo alternare parti recitate sottovoce dal celebrante e orazioni cantate ad alta voce, la correttezza formale fu rispettata. Diversamente dalla liturgia riformata dal Concilio, perché la Messa antica fosse efficace, era sufficiente che il celebrante e i ministri dell’altare pronunciassero sottovoce tutte le parti previste dal rituale, indipendentemente dalle musiche eseguite: tale pratica è ciò che davvero ha permesso alla musica di abitare la liturgia cattolica con tanta profusione e successo.
Considerando il caso specifico del Requiem verdiano, durante l’esecuzione del Dies irae, che dal rito ambrosiano non è previsto, il celebrante ha semplicemente recitato a bassa voce il testo dell’antifona ambrosiana corrispondente.
- Chi era monsignor Calvi, il celebrante? Perché lui?
La celebrazione di quella messa fu affidata a monsignor Giuseppe Calvi per ragioni sia di prestigio, poiché era il prevosto del capitolo del Duomo, sia politiche – in quanto fu figura cardine della fazione progressista del clero ambrosiano che chiedeva al Papa di rinunciare al potere temporale della Chiesa -, sia di opportunità, essendo un sacerdote non inviso ad una popolazione in quegli anni pericolosamente riottosa contro il clero. Il Calvi si era peraltro già fatto notare in un paio di occasioni di pubblica adesione al nuovo corso post-unitario; pertanto, egli fu una scelta di garanzia per tutti.
- Chi ha fortemente voluto quella “prima” musicale, liturgica?
La paternità dell’iniziativa deve essere rintracciata indubbiamente in Verdi che volle tributare un omaggio «a quel santo di Manzoni» nella forma che il cattolico Manzoni avrebbe più gradito, ossia una Messa di suffragio: non un’elegia, un ricordo laico o una pubblica commemorazione.
Il sincero slancio di Verdi verso l’autore de I Promessi Sposi fu subito abbracciato dall’editore Ricordi e dal sindaco di Milano che si offrì di coprire le spese. Il parroco della chiesa di San Marco, don Michele Mongeri, fu impegnato in prima linea nella mediazione fra il comitato organizzatore e l’arcivescovo Luigi Nazari di Calabiana, che si trovava in una posizione particolarmente scomoda.
Pio IX aveva infatti offerto a Nazari di Calabiana, insigne diplomatico con trascorsi da senatore del Regno, la cattedra di Milano nella speranza di ripristinare la governabilità di quella diocesi, compromessa durante gli anni dell’unificazione nazionale. Anche l’affaire requiem non era una situazione facile, ma l’arcivescovo seppe uscirne incolume senza capitolare e senza scontentare alcuno.
- Perché è stata scelta proprio la chiesa di San Marco?
Quella Messa non si sarebbe potuta celebrare altrove, e non solo per l’ottima acustica del grande tempio agostiniano: l’ipotesi del Duomo, accarezzata all’inizio, fu accantonata per non suggellare con la patente di ufficialità un’impresa che, seppur distensiva, avrebbe potuto suscitare indignazione e proteste nella fascia più conservatrice del clero ambrosiano; non dimentichiamo che in quegli anni il Papa era di fatto prigioniero in Vaticano.
La chiesa di San Marco inoltre vantava un’antica tradizione liberale, la frequenza di Manzoni e un prevosto che sin dagli anni del seminario aveva simpatizzato per la causa rivoluzionaria.
- Qual è dunque la “vera” storia del Requiem, ovvero qual è la tesi sostenuta nel suo libro?
Il Requiem di Verdi fu composto per una Messa di suffragio e in quella fu eseguito per la prima volta. Niente che non fosse sempre accaduto da secoli fino a lì. L’eccezionalità del caso sta nelle coincidenze: era appena stata presa Roma, era appena morto il più noto patriota cattolico d’Italia e il celeberrimo padre della patria gli componeva la musica funebre. A nessuno poteva sfuggire l’occasione offerta da simili coordinate, tanto meno ai politici e ai diplomatici.
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- Manzoni e Verdi sono, nel caso, da vedersi come le figure emblematiche della composizione culturale-civile-religiosa del popolo italiano?
Più che figure emblematiche, Manzoni e Verdi erano due miti viventi per gli italiani. Entrambi patrioti, all’uno, essendo credente militante, toccò di essere il nume tutelare dei cattolici; l’altro era niente meno quel ‘W VERDI’ scritto sui muri di tutto il Paese.
Indipendentemente da cosa davvero sentissero e pensassero, sulle loro spalle pesava l’opinione pubblica del regno intero ed erano ben consapevoli della responsabilità che il loro scrivere, comporre, vivere e perfino morire, non erano solo cose personali ma affari di Stato. Verdi adorava letteralmente il Manzoni e fu quindi personale e sincero lo slancio di dedicargli, come ultimo omaggio, un capolavoro. Ma tali erano i personaggi, che ogni loro gesto pubblico avrebbe inevitabilmente assunto un significato nazionale.
È difficile pensare oggi cosa significasse quell’evento, ma proviamo ad immaginare il momento e il luogo in cui le due massime star della letteratura e della musica del tempo si incontravano, nella circostanza così emotivamente carica di un addio pubblico: a loro si univa tutto il popolo italiano; fuori di metafora si abbracciavano nelle piazze e per le vie quelli che fino al giorno prima erano ideologicamente nemici; la vera unità nazionale fu quell’unico e irripetibile evento, e lo sapevano tutti.
- Quali erano, all’epoca, in Italia, i modelli di musica sacra e quale originalità musicale vi ha impresso Verdi?
Negli anni che precedettero e seguirono la prima esecuzione del Requiem di Verdi la riflessione teorica ed estetica sulla decadenza della musica sacra in Italia riscosse il vivo interesse sia dei teorici che del clero. C’era insomma un’attesa quasi messianica per il verdetto di Verdi, cui il Requiem corrispose a seconda dei punti di vista e dell’orientamento ideologico.
La critica sostanzialmente si divise sulla semantica di ‘drammatico’ e ‘teatrale’: il Requiem di Verdi contrapponeva un linguaggio insieme tradizionale e contemporaneo, tanto a chi preferiva un ritorno all’asemanticità del Rinascimento italiano piuttosto che del Barocco teutonico, quanto a chi si affannava ad epurare la musica sacra da ogni forma di empatia popolare; chi amava Verdi ha definito il suo Requiem ‘drammatico’, chi non lo condivideva lo diceva ‘teatrale’. Ma Verdi era troppo più avanti di questi sagrestani della musica.
- Il Requiem di Verdi è, dunque, un’opera lirica a valenza politica, ovvero è anche un’opera autenticamente liturgica e profondamente spirituale?
La definizione di ‘opera lirico-teatrale’ per il Requiem di Verdi è impropria: gli elementi che possono sembrare operistici o teatrali nella partitura derivano dal fatto che il compositore nel 1874 aveva già forgiato, da oltre quarant’anni, il linguaggio musicale italiano, e lo aveva fatto con l’opera lirica.
Mettere in discussione quel linguaggio musicale significava mettersi a comporre all’antica, alla francese o alla tedesca, ossia dissolvere l’identità musicale italiana proprio nel momento in cui, con maggior forza, l’Italia cercava una sua identità nazionale.
Su questo Verdi non scese a compromessi e fu semplicemente sé stesso: nella poderosa affermazione della propria identità di uomo dei suoi tempi, prima ancora che di compositore, non si può non cogliere la spiritualità della società di fine Ottocento, non il travestimento operistico delle ultime verità di fede, ma la compartecipazione di un sentimento religioso che, forse, per taluni non è più percepibile o condivisibile.
Se Verdi avesse composto il suo Requiem nel severo stile contrappuntistico predicato da quanti ritenevano che la musica sacra andasse riformata in quella direzione, chissà se saremmo qui a trattarne oggi…
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Quindi, oggi, il Requiem di Verdi va proposto in chiesa o in sala da concerto?
Il testo del Requiem – indipendentemente dall’intonazione che si ascolta, dal periodo storico o dal compositore – interroga nel profondo la soggettività di chiunque voglia lasciarsi provocare, credente o non credente. Se, oltre ad abbreviare la permanenza in purgatorio delle anime, il fine del requiem è quello di un memento mori, questo sortisce l’effetto sperato in chiesa, in teatro e dovunque lo si ascolti.
Una sottolineatura indubbiamente più interessante potrebbe essere, piuttosto, quella che prende atto dell’impossibilità di riascoltare il Requiem di Verdi con la predisposizione d’animo condivisa da quanti parteciparono alla celebrazione del 22 maggio 1874, non solo perché le condizioni politiche e sociali sono inevitabilmente mutate, ma anche per la difficoltà d’accesso all’originaria cornice liturgica. La liturgia preconciliare era infatti il contesto perfetto per la partitura verdiana, nel suo ambiente naturale, cioè la chiesa.
Ma ormai la liturgia antica è quasi estinta, avversata da una parte e praticata inconsapevolmente dall’altra. La riproposizione del Requiem di Verdi in una celebrazione di rito riformato risulterebbe incongruente per l’oggettiva discrepanza fra la struttura delle due formule liturgiche, con le proprie esigenze e peculiarità. Certo è che il Requiem di Verdi patisce la stessa sorte della più parte della musica cattolica antica: la si esegue in concerto perché non trova più il suo posto in liturgia.
- Come suggerisce ai lettori di accostarsi e di ascoltare o di riascoltare, magari per l’ennesima volta, quest’opera?
Il Requiem è uno dei testi più potenti e provocatori dell’intero repertorio testuale della liturgia cattolica, pertanto, come fu faccenda privata e soggettiva di Verdi il musicarlo, così privato e soggettivo deve esserne l’ascolto: non si può pretendere che diverse sensibilità religiose – se presenti – si lascino sollecitare allo stesso modo dalla partitura.
Per non cadere nei luoghi comuni proposti da un certo sentimentalismo musicologico, mi limito a suggerire una riflessione applicabile al Requiem di Verdi e a qualsiasi altra opera d’arte: una partitura, un testo poetico, un affresco o una scultura non sono espressioni irrazionali di un genio imperscrutabile, ma compartecipano di un hic et nunc che, se non potrà mai essere riproposto o rivissuto per quel che è stato, tuttavia può essere riesplorato con le informazioni della ricerca storica.