Gli abiti e i copricapi delle consacrate
Il velo femminile è usato da tempo immemorabile in una vasta area geografica che va dall’India al Mediterraneo. Esso ha assunto particolari forme e consuetudini nell’ebraismo, nel cristianesimo e nell’islam. Riflessioni e domande a partire dalla pratica delle consacrate fino al tema discusso del velo islamico.
Ero davanti ad una assemblea di 400 suore e guardandole osservavo le vesti e i veli. I colori variavano molto: dall’azzurro alle molte sfumature fra marrone e grigio, al bianco. Taglie e fogge assai diverse ma tutte molto semplici, funzionali, seppur riconoscibili. Un terzo circa dell’assemblea non aveva il velo. Quelle che lo portavano lo avevano come semplice copricapo dei capelli che scendeva non oltre le spalle. A parte la diversità dei colori non vi era nessuna foggia particolare che si facesse notare. In altra occasione avevo partecipato a un raduno dell’Ordo Virginum, oggi in forte crescita, che raccoglie consacrate legate alle diocesi: le presenti erano tutte in borghese, con abiti e fogge comuni. Diverso il caso di una testimonianza di un paio di monache di nuova fondazione. I loro vestiti grezzi che le coprivano fino ai piedi e il velo dello stesso colore hanno provocato in un casuale incontro sulla strada con un gruppo di persone commenti aggressivi perché erano state scambiate per donne musulmane. Infine, una memoria dell’infanzia, quando negli anni’50 la grande maggioranza delle donne entravano in chiesa mettendosi sul capo un leggerissimo velo, spesso molto lavorato, la cosiddetta «veletta».
Abitudini, norme e significati
Impressioni e memorie casuali che mi sono venute in mente dopo la lettura del volume di Giulia Galeotti, Il velo. Significati di un copricapo femminile (vedi al piede); un testo godibile non solo per la competente argomentazione sul versante cristiano, ebraico e islamico, ma anche per il disinvolto richiamo alla Scrittura, al patrimonio dell’arte visiva, alle annotazioni dei romanzi e alle discussioni dell’attualità. Come quella riguardante la legislazione sul velo islamico in diversi paesi d’Europa.
Dopo un lungo percorso storico fra le diverse religioni e un’ampia trattazione sul significato spirituale, politico e culturale del velo, le conclusioni sono scolpite. «La prescrizione del velo femminile non è costitutiva delle religioni monoteistiche. Ma se nell’ebraismo la necessità che le donne si coprano il capo appartiene, più che a vere e proprie norme scritte, a quell’insieme di prescrizioni che vanno sotto il nome di costume e che obbediscono all’esigenza di mantenere la modestia – per cui la trasgressione non è classificabile come empietà, ma semmai come indecenza -, la situazione è più articolata nel cristianesimo e decisamente ancora più complessa nell’islam. In tutti e tre i casi, però, il velo femminile, quando compare, compare in quanto simbolo ed emblema di sottomissione al maschile» (pp. 211-212). Tuttavia vi è una vistosa diversità cristianesimo e islam. Essa è legata a tre ordini di fattori: la interpretazione storico-critica dei testi della Bibbia, la libertà di decisione in ordine all’uso o meno del velo, il contesto storico-sociale che va riconoscendo alla donna un ruolo pubblico crescente. La mancanza per l’islam di queste tre condizioni rende complicata, contraddittoria e difficilmente gestibile anche una consuetudine non decisiva come l’uso o meno del velo femminile.
Veli e vestiti dopo il Vaticano II
Chi ha vissuto il periodo immediatamente a ridosso del concilio ricorda il rapido e radicale cambiamento di fogge nei vestiti e nei veli delle suore. Non si trattava solo di un cambiamento esterno. Era legata a quei processi di rinnovamento che pescavano fino all’identità profonda della vita consacrata. Così scriveva suor Marie Suzanne Guillemin (1906-1968), superiora generale delle Figlie della carità, fondate da san Vincenzo de’ Paoli, uditrice al concilio Vaticano II: «Prima del concilio la vita religiosa era concepita più nella sua essenza canonica e morale che teologica… Chi decideva di lasciare il mondo per consacrarsi a Dio doveva mettere in conto un vero e proprio rinnegamento di se stesso, della propria identità, del proprio io come coscienza individuale, per accogliere il rifiuto, incondizionato e imposto… di riconoscersi persona umana a tutti gli effetti, con necessità e desideri propri e naturali che dovevano essere repressi per fare spazio alla vita dello Spirito». «Entrare attivamente nel cammino della Chiesa (conciliare) e adattarsi al mondo di oggi, è questione di vita o di morte per una comunità, e ciò che è ancora più grave, di fedeltà o di tradimento alla propria vocazione nella Chiesa» (p. 41, 43). Apparvero in quasi tutte le congregazioni femminili abiti più semplici, più corti, meno ostensivi. Con gli stessi criteri cambiarono i veli. Ma sotto il velo il cambiamento era assai maggiore.
Alcuni passi paolini critici nei confronti delle donne (come 1Cor 11,2-16;«ogni donna che prega o profetizza senza avere il capo coperto da un velo, fa disonore al suo capo») sono ricondotti agli specifici problemi di gestione della comunità, a contenere spregiudicatezze eccessive, ma soprattutto vanno rapportati ad altri testi in cui le donne hanno gli stessi titoli ministeriali degli uomini e in cui vengono superate le disparità. Come nel classico passaggio di Gal 3,28: «Non c’è giudeo né greco; non c’è schiavo né libero; non c’è maschio e femmina, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù».
La storia e i suoi pesi
Il tratto di novità e libertà evangelica e neotestamentaria viene progressivamente piegato nell’età patristica sul calco della subordinazione femminile di molte tradizioni sia romane, come giudaiche o greche. Tertulliano, ad esempio, prescrive il velo a tutte le donne, nessuna esclusa, ogni volta che escono di casa. Posizioni simili in Clemente Alessandrino. Così dal concilio di Gangra (324 circa) il velo come memoria di sottomissione giunge, in varie ondate, fino al codice di diritto canonico del 1917.
Questo non cancella la straordinaria storia di libertà e di santità di cui il velo monastico-religioso è testimone nei secoli della Chiesa, perché, come ogni segno, può piegarsi a significati e simboli molto diversi e persino contradditori rispetto a quelli consegnati dalle consuetudini sociali. La lettura dei riti di consacrazione di suore e monache è lì a dimostrarlo. Così commenta il solenne momento della velatio suor Anna Maria Canopi, abbadessa del monastero dell’isola di San Giulio, sul lago d’Orta, a Novara: «Il significato del velo è evidente. La monaca, consacrata nella verginità per essere esclusivamente sposa di Cristo, deve sottrarsi allo sguardo di altri possibili pretendenti e amanti. Essa vive quindi ritirata dal mondo, nel chiostro… Il velo è quindi una specie di clausura nella clausura» (p. 26).
Per la tradizione ebraica rimando alle pp. 11-24 e allo scambio curioso: nel culto è l’uomo che si copre il capo, non la donna. Coprirsi il capo per gli uomini è un segno di rispetto per la presenza divina, per le donne è un segno di pudore e di modestia. E questo vale solo per le sposate. In ogni caso non è considerato obbligo di origine biblica.
Il Corano e le donne
Assai più complicato il caso del velo islamico nelle sue varie forme, dal chador al khimar, dal niqab al burqa. La discussione sul vincolo coranico dell’uso del velo si è avviata solo nel ‘900. Le scuole largamente prevalenti lo danno come obbligatorio, ma ormai le voci che distinguono tra velo e comando divino stanno crescendo. Per il gioco combinato della colonizzazione-decolonizzazione, della rivoluzione islamica in Iran, del fondamentalismo islamico (afgano-Isis), del trauma delle torri gemelle (2001), della globalizzazione, il velo islamico ha assunto un ruolo proprio nel dibattito pubblico a tutte le latitudini. C’è chi lo vede come il delirio di un controllo strisciante che finisce per immobilizzare l’identità femminile (p.126), c’è chi lo ha trasformato in ideologia politica, come i talebani in Afghanistan, dove la donna è un elemento perturbatore dell’ordine sociale, e come tale deve essere bandita dalla scena pubblica (p.150), mentre per altri è un vero e proprio imperativo a infantilizzare le donne (come in Arabia Saudita, p.154). Ma non manca chi lo legge come un fondamentale elemento identitario e religioso, soprattutto dopo l’umiliante sconfitta dei paesi arabi contro Israele nel 1967, e dopo la crescente ostilità pubblica in Occidente a seguito degli attentati del fondamentalismo islamico. Dopo gli attacchi alle Torri Gemelli dell’11 settembre 2001 «le musulmane con il capo scoperto che abitano nelle nostre città e il nostro quotidiano hanno cessato di essere, per molti, un fenomeno sociologicamente folcloristico per diventare un pericolo» (p.158).
Questo ha provocato fra le donne musulmane in Occidente una reazione opposta: «Dalla guerra del Golfo, vedendo come le mie amiche velate erano trattate, ho fatto il voto di indossare il velo per mostrare il mio essere musulmana e araba» afferma una giovane donna canadese (p. 159). Le fa eco una giovane romana che rispetto alla proprio cugina in Marocco, veste secondo le tradizioni arabe, velo compreso. «Oltre a esprimere un malessere generalizzato nelle società islamiche, esso occulta il loro cambiamento e ne esacerba le paure. Chi lo indossa, soprattutto in Occidente, lo fa per coercizione, per condizionamento, per rivendicazione o per libera scelta. Le letture possibili sono molte, ma tutte rimandano a una serie di conflitti irrisolti: il conflitto fra islam e Occidente, il conflitto dell’islam con se stesso, il conflitto fra diritto e cultura» (p. 170). C’è anche chi ricorda come il sottrarre le donne alla vista sia «un modo molto efficace per mettere in crisi uno dei fondamenti della nostra cultura, quel sistema visuale che abbiamo creduto di poter estendere al mondo intero».
Più leggi o più cultura?
La discussa legislazione in ordine al velo ha visto un intervento diretto del legislatore francese e belga, una resistenza contraria negli USA, in Germania e in Italia. Per i fautori delle leggi esse mirano a proteggere i musulmani da una visione troppo retrograda e a garantire i valori della laicità, per gli oppositori minacciano la libertà delle fede e sono contradditori dal punto di vista della formazione dell’ethos.
«La legge ha privilegiato una pedagogia forzosa nei confronti della comunità musulmana accettando il rischio di diseducare una intera società alla convivenza con gli altri. Certamente, essa bene esprime il richiamo del monismo unitario, delle sue “soluzioni finali”, così seducente nei momenti di crisi» (A. Ferrari, cit. a p. 187). In senso opposto Mona Eltahawi: «Per me è una delusione quando la sinistra europea non afferma forte e chiaro che la messa al bando del niqab è una questione di diritti femminili, punto e basta» (p. 189).
«Alcune lo indossano per devozione, altre perché vogliono essere visibilmente identificabili, altre ancora per essere lasciate in pace. C’è chi ha battagliato in famiglia per metterlo e chi invece è stata costretta dalla famiglia a indossarlo; c’è chi lo vede ancora come l’emblema della sottomissione e chi invece lo intende come modo per ribellarsi, al regime o all’Occidente… Forse, però, tra tutti, il passaggio radicale che si è verificato è che, per alcune musulmane che vivono in Occidente, il velo non è più la prova della sottomissione al maschile, ma è diventato il simbolo stesso dell’islam» (pp. 214-215). A testimonianza che il velo è uno dei molti elementi indicanti la necessità urgente di un approfondimento spirituale e culturale della fede e delle fedi e un segnale di insufficienza di una laicità che si nega alle parole pubbliche delle fedi non riuscendo più ad alimentare i valori su cui è costruita e a gestire i conflitti che, a torto o ragione, trovano le proprie radici nel richiamo alle religioni.
Giulia Galeotti, Il Velo. Significati di un copricapo femminile, Collana «Lapislazzuli», EDB, Bologna 2016, pp. 232, € 16,50. 9788810558669
Qui una recensione di Michela Murgia durante la rubrica Quante storie della trasmissione Mi manda RaiTre.
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