
The Meeting Place.
Due sono a mio avviso le esperienze umane fondamentali di crescita: da un lato l’opera costante e tenace di semina, seguita dal raccolto, la preparazione, la gestazione; dall’altro l’incontro fulminante con l’altro/a. Anche il Libro di tutti i Libri, la Bibbia, presenta entrambi i volti del fare umano e della nostra relazione con il divino.
Ricorrono, tra le altre, le metafore dei semi, dei campi, dei rovi, della zizzania. E altrettanto eloquenti sono ad esempio i passi nei quali il Signore, in un attimo, impedisce, tramite un angelo, che Abramo sacrifichi suo figlio Isacco o comunica con Mosè nel roveto ardente. Per non dire della folgorazione per antonomasia, quella di Paolo sulla via di Damasco.
La storia di ciascun essere umano, che sia credente o meno, è caratterizzata dai due aspetti. Vi sono relazioni sentimentali o amicali nate da “un colpo di fulmine”, poniamo, e altre maturate lentamente negli anni. Più spesso, anzi, una stessa relazione è costellata di istanti (i primi, fugaci sguardi, le prime sillabe scambiate, il rossore in viso, l’emozione del primo bacio, il primo incontro di sesso, la nascita di un/a figlio/a e così via) e di un’opera tenace di dissodamento e di tessitura. Come si suol dire, il rapporto “va coltivato”.
E l’impresa culturale e scientifica è a sua volta contraddistinta da un lento, graduale, progressivo accumulo di saperi e da momenti di svolta (le varie “rivoluzioni copernicane”), quando antichi paradigmi cedono il posto ai nuovi. L’epistemologo Thomas Kuhn, non a caso, parlava di anomalie che approdano a veri e propri salti.
In tal contesto, accanto al contrasto fra i tempi lunghi della “routine” e la rapidità delle mutazioni (quasi fossero vere e proprie mutazioni genetiche, non semplici variazioni sul tema), porrei l’accento sulla forza dell’incontro. Una sorta di esperienza estatica, talora, nella quale è come se si uscisse dai propri confini individuali – da se stessi – per con-fondersi con il mondo interiore dell’altro/a. Un’altra, un altro che non di rado risuonano con qualcosa che è già in noi (il celebre perturbante evocato da Freud).
Nella nostra quotidianità capita che si stigmatizzi un atteggiamento di remissiva attesa (quella dello “speranzoso” a oltranza, di chi confida nell’incontro miracoloso o nel colpo di fortuna), a favore, piuttosto, dell’impegno e della costanza. In realtà la ricerca della felicità non può che nutrirsi di un equilibrio, di una giusta proporzione dei due momenti e dei due aspetti. Se non ci poniamo domande, se non arricchiamo noi stessi con la virtù e il discernimento, se non proviamo a tessere una trama relazionale adeguata, difficilmente ci imbatteremo nell’evento, difficilmente troveremo risposte.
E arduo sarà incontrare “la persona della nostra vita” intellettuale, artistica o sentimentale. Altrettanto importante, tuttavia, è riuscire a riconoscere quegli occhi, quella formula matematica, quel sorriso, quell’occasione di libertà. Già, come non si stanca di sottolineare il filosofo Giacomo Marramao, la libertà è nell’evento, nei fatti che rompono le catene che di solito ci vincolano, le legature, nei fatti che sfidano le dure leggi della necessità. E si tratta di fatti, di eventi che, tanto nelle vicende individuali quanto in quelle collettive, corrispondono di solito a una sorta di eccezionale “congiuntura astrale”. Per lo più a un incontro, nella vita dei singoli.
Potremmo anche porre in tensione i due aspetti costitutivi del tempo: Chronos, il fluire costante, inesorabile, cumulativo dei minuti, dei giorni, degli anni, e Kairós, il tempo debito, propizio, opportuno. In Chronos si situa la “gestazione”, nel Kairós l’incontro.