Una delle caratteristiche meno positive della cultura in cui viviamo è il relativismo. Si tratta di un approccio alla realtà che porta all’esasperazione un aspetto caratteristico della vita umana, cioè la capacità di interpretare le idee, i comportamenti e le situazioni a partire dalla propria soggettività. Nella visione relativista, infatti, non esiste più alcun ideale oggettivo, ma ciascuno si crea le proprie verità e il proprio sistema di valori al fine di dare un senso, pur temporaneo e parziale, alla propria esistenza.
La visione relativista può spingere anche ad accostarsi all’esperienza cristiana, ma solo in modo selettivo, al fine cioè di accogliere quei soli valori che si ritengono utili per la propria vita. Come quando si va al supermercato si scelgono solo alcuni prodotti tra tutti quelli che sono in vendita, così il relativismo fa assumere solo alcuni aspetti dell’esperienza cristiana, quelli che si ritengono far funzionare meglio la propria vita e favorire il proprio benessere. In tale prospettiva non si possono giudicare le verità che gli altri individui si sono costruite: se, dal loro punto di vista, queste loro verità funzionano bene, perché consentono loro di dare un senso alle cose che vivono, non c’è ragione di metterle in discussione, visto che non c’è alcuna oggettività con cui confrontarsi.
In realtà, l’esperienza cristiana autentica nasce dall’accogliere una testimonianza ben precisa, quella che è stata data dai primi discepoli di Gesù – in particolare dai dodici apostoli – e che è stata trasmessa fino a noi da parte di innumerevoli credenti. Questa testimonianza ci precede nella sua oggettività e chiede di essere accolta nella sua completezza. Anche se dovrà essere incessantemente interpretata, rielaborata e approfondita, non può essere accettata in modo selettivo né tanto meno reinventata, come suggerirebbe il relativismo: in questo modo, infatti, non si vivrebbe affatto l’esperienza cristiana né si sperimenterebbe la gioia del Vangelo.
Vi sono poi altri modi nei quali la visione relativista può influire negativamente sull’esistenza credente. Se la vita cristiana nasce dall’accogliere la fede trasmessa dalla Chiesa, nella consapevolezza che il Signore la guida nella via della fedeltà al suo Vangelo, questa vita non potrà che svilupparsi in una profonda sintonia con il cammino ecclesiale, e non soltanto su aspetti centrali della dottrina, ma anche su questioni disciplinari, come le opzioni in campo liturgico, pastorale, organizzativo o amministrativo.
In particolare, l’assunzione di un ministero nella Chiesa richiede non soltanto di aver fatto un cammino di fede che abbia condotto ad una sincera adesione al Signore, ma anche di aver maturato delle motivazioni profonde per restare fedeli al cammino ecclesiale in ogni circostanza, anche in quelle difficili.
Non c’è nulla di male ad avere dubbi e perplessità su alcuni orientamenti disciplinari della Chiesa cattolica o della diocesi, ed è assolutamente positivo cercare un confronto trasparente e sincero, per favorire sia la propria crescita che il cammino della comunità ecclesiale. Sarebbe però uno stile relativista e distruttivo della comunione ecclesiale assumere primariamente la propria soggettività – cioè le proprie idee, anche se sostenute da studi approfonditi – come norma del proprio agire pastorale e procedere in modo autoreferenziale.
È pur vero che, a volte, è molto difficile custodire la fedeltà alle scelte ecclesiali, soprattutto quando suscitano perplessità nel proprio animo e rendono invisi a persone a cui si vuole bene. Tuttavia, il modo migliore per aiutare la Chiesa a crescere non è quello di andare avanti per la propria strada, convincendosi di essere dei profeti lungimiranti. La Chiesa non è edificata da persone che fanno a gara a chi vede più lontano, ma da chi sa affermare il proprio punto di vista con umiltà e schiettezza, ma poi sa ispirare la propria prassi pastorale a ciò che tutta la Chiesa sta pensando e vivendo nel momento presente, rispettandone i tempi e le scelte.
Questa capacità di dare fiducia all’attuale discernimento dell’intero popolo di Dio guidato dai suoi pastori rispetto alle proprie opinioni personali è fondamentale per i ministri ordinati, a maggior ragione per il fatto che, per diverse motivazioni, è sempre estremamente difficile qualsiasi forma di supervisione del loro operato. Certo, in alcune circostanze questa fedeltà può avere un costo molto alto, come la perdita del prestigio e dell’apprezzamento da parte di persone della propria comunità. D’altra parte, è ovvio che chi non è pronto a rinunciare alla stima di qualcuno in ragione della propria fedeltà alla missione ricevuta da Dio e dalla sua Chiesa non è proprio adatto a svolgere il ministero pastorale.