Chi non ha fatto festa per il trionfo della Nazionale lunedì 27 sera? Gli spagnoli, che partivano con i favori del pronostico, anziché matadores sono stati proprio loro il toro colpito da due stilettate mortali dei toreri azzurri.
La nazionale “operaia”, senza stelle di prima grandezza, ha eseguito alla perfezione i compiti affidati da un allenatore ormai in partenza, ma fedele fino in fondo al suo mandato.
Bella soddisfazione è anche quella – mentre nelle squadre italiane imperversano campioni stranieri – di vederli sconfitti da calciatori italiani spesso confinati in panchina.
Il calcio cambia
Non è più il calcio di una volta, certamente. Ma di quale volta? Sicuramente, di quando si imparavano a memoria le formazioni delle squadre e restavano quelle tutte le domeniche, salvo infortuni o rare variazioni tattiche. Di quando i giocatori si allenavano indossando tute lavate chissà quante volte, magari dalla moglie del massaggiatore. Di quando si aspettavano le sette di sera al bar del paese per vedere un tempo di una partita di serie A.
Ma bando alle nostalgie, adesso trionfano campioni e comprimari che sono veri e propri tatuaggi ambulanti, capigliature da ultimo dei mohicani, cura maniacale di aspetti estetici assolutamente irrilevanti ai fini agonistici, portieri e attaccanti che affollano le copertine delle riviste di gossip. E che dire dei contratti faraonici, non poche volte accompagnati da raggiri finalizzati all’evasione fiscale?
Insomma, è in atto una moderna versione del panem et circenses. Però con una lenta e progressiva erosione di un sistema che mostra evidenti segni di affanno, società sportive sull’orlo del fallimento, disoccupazione in agguato per molti che avevano scelto il mestiere del calciatore ma non sono riusciti ad assicurarsi un posto in serie A. E senza mai tacere né i comportamenti violenti, né la schifezza delle partite truccate, né il pericolo mai definitivamente sconfitto del doping.
Malgrado tutto ciò, una bella partita resta una bella partita, certi gesti atletici mostrano uomini veri, soprattutto quando prevalgono lo spirito di squadra, la capacità di lottare, l’altruismo, il coraggio, la lealtà.
Il calcio nella letteratura
Scrittori e poeti hanno dedicato al calcio pagine di vera letteratura. Gianni Brera fu maestro di giornalismo e divenne autore di romanzi sullo sport. Dopo di lui, sul confine tra il quotidiano e il libro che resta, vanno ricordati almeno Giampaolo Ormezzano e Gianni Mura.
In Argentina, terra dove la gente cresce a pane e fùtbol, ha scritto cose meravigliose Osvaldo Soriano; una raccolta di suoi racconti ha per emblematico titolo “Pensare con i piedi”.
Un percorso al contrario lo fece Giovanni Arpino, passato dai romanzi ai quotidiani per le cronache sportive del lunedì: godibilissimo il suo “Azzurro tenebra” nel quale diventa autentica letteratura la fallimentare partecipazione italiana al Mondiale del 1974 in Germania.
Non mancano i poeti: Vittorio Sereni che, da tifoso interista, assiste alla sconfitta della sua squadra da parte di una troppo forte Juventus: sul campo avverso «le zebre venute dal Piemonte… ne fanno un reame bianconero». Umberto Saba, che scoprì tardi il calcio ma fece in tempo a dedicargli cinque poesie rivolgendosi così ai giovani della Triestina, squadra della sua città: «Giovani siete, per la madre vivi; / vi porta il vento a sua difesa. V’ama / anche per questo il poeta, dagli altri / diversamente – ugualmente commosso».
Ma anche – udite udite! – addirittura Giacomo Leopardi, autore di una poesia dedicata nientemeno A un vincitore nel pallone. Da spettatore, non certo da atleta, il grande di Recanati si rivolge a un «garzone… rigoglioso dell’età novella» dichiarando che in lui «a patria cara / gli antichi esempi a rinnovar prepara».
Con l’augurio a Pellé, Giaccherini, Chiellini e compagni di riuscire a rinnovare gli antichi esempi dei Meazza, dei Rivera, dei Tardelli…
Infine, per dare una virata spirituale a un discorso fin qui un po’ troppo rasoterra, affidiamoci a una bella preghiera che Michel Quoist scrisse prendendo lo spunto da una partita di calcio.
La partita notturna
PREGHIERA
Questa sera, allo stadio, la notte si agitava, popolata di diecimila ombre,
e quando i proiettori ebbero dipinto in verde il velluto dell’immenso campo,
la notte intonò un coro, nutrito di diecimila voci.
Infatti il maestro di cerimonie aveva fatto segno di iniziare la funzione.
L’imponente liturgia si svolgeva dolcemente.
Il pallone bianco volava da ministro a ministro
come se tutto fosse stato minuziosamente preparato in precedenza.
Passava dall’uno all’altro, correva raso terra o volava sopra le teste.
Ognuno era al suo posto, ricevendolo alla sua volta,
con colpo misurato lo passava all’altro, e l’altro era là per accoglierlo e trasmetterlo.
E siccome ognuno faceva il suo lavoro dove occorreva,
siccome forniva lo sforzo richiesto,
siccome sapeva di aver bisogno di tutti gli altri,
lentamente, ma sicuramente, il pallone avanzava;
e quand’ebbe raccolto il lavoro d’ognuno,
quand’ebbe riunito il cuore degli undici giocatori,
la squadra gl’impresse un soffio e segnò il goal della vittoria.
Dopo la partita, a stento l’immensa folla si disperdeva nelle strade troppo strette,
ed io pensavo, o Signore, che la storia umana, per noi lunga partita,
per Te era questa grande Liturgia,
meravigliosa cerimonia iniziata all’aurora dei tempi,
che terminerà quando l’ultimo ministro avrà compiuto l’ultimo gesto.
In questo mondo, o Signore, abbiamo ognuno il nostro posto;
allenatore previdente, da sempre Tu ce lo destinavi.
Tu hai bisogno di noi qui, i nostri fratelli han bisogno di noi e noi abbiamo bisogno di tutti.
Non ha importanza il posto che io occupo, o Signore,
ma la perfezione e l’intensità della mia presenza.
Che importa che io sia avanti o indietro, se sono al massimo quello che debbo essere?
Ecco, o Signore, la mia giornata davanti a me…
Non ho riparato troppo sul fallo, criticando gli sforzi degli altri, le mani in tasca?
Ho tenuto bene il mio posto, e mi hai Tu incontrato sul campo quando lo guardavi?
Ho ricevuto bene il “passaggio” del vicino e quello dell’altro dall’altra estremità del campo?
Ho “servito” bene i miei compagni di squadra,
senza giocare troppo personalmente per mettermi in mostra?
Ho “costruito” il gioco in modo da ottenere la vittoria con il contributo di tutti?
Ho lottato fino in fondo nonostante gli scacchi, i colpi e le ferite?
Non sono stato turbato dalle dimostrazioni dei compagni e degli spettatori,
scoraggiato dalla loro incomprensione e dai loro rimproveri, insuperbito dai loro applausi?
Ho pensato di pregare la mia partita, non dimenticando che agli occhi di Dio
questo gioco degli uomini è la funzione più religiosa?
Ora vado a riposarmi negli spogliatoi, Signore;
domani, se Tu darai il calcio d’avvio, giocherò un altro tempo,
E così ogni giorno…
Fa’ che questa partita celebrata con tutti i miei fratelli
sia l’imponente liturgia che Tu aspetti da noi,
affinché quando il tuo ultimo fischio interromperà le nostre esistenze
noi siamo selezionati per la Coppa del Cielo.
Michel Quoist
(prete francese, negli anni ’60 scrisse alcuni bei libri di preghiera e meditazione soprattutto per giovani)