Le tendenze antropologiche di fatto più marcate sono segnate da limiti e da vuoti, tanto da poterle chiamare: tendenze culturali e antropologiche connotate dal “senza” (uomo senza volto, uomo senza casa, uomo senza nome, uomo senza passato, uomo senza futuro, uomo senza cuore). Oggi, non solo il discorso sull’uomo, ma anche, quello sulla religione, quello sul cristianesimo, quello su Dio, quello su Cristo, quello sulla Chiesa, quello sull’etica conoscono la deprivazione di qualcosa o di molto o dell’essenziale, espresso dal “senza”. Constatiamo oggi un uomo deprivato di tante dimensioni, fino allo sfaldarsi della sua identità. Tratteggiamo la figura dell’uomo contemporaneo come figura fragile, che talora appare essere senza volto, senza casa, senza cuore.
Un uomo senza volto
Nella lunga transizione storica che si sta vivendo, l’integrità e la libertà dell’uomo – simboleggiate dal suo volto – sono messe in discussione, fa riscontro la mancanza d’interesse per la figura umana che ha caratterizzato gli ultimi decenni dell’arte e che segna ancor più profondamente le neo-avanguardie (cf. G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Dall’Informale al Neo-oggettuale, Feltrinelli, Milano 2004). Un sintomo inequivocabile della perdita che l’uomo esperimenta del suo volto, inteso come la propria identità realizzata e manifestata, è proprio il fatto che l’immagine dell’uomo è così poco rintracciabile nell’arte moderna che ci si chiede se sia mai possibile, oggi come oggi, ritornare a dipingere un ritratto.
Spesso negato e deturpato, ma anche discriminato e massificato, perfino “plastificato”, il volto umano nell’epoca contemporanea ha conosciuto alcune tra le sue forme più estreme di distruzione. Ma, nella nostra contemporaneità, proprio quando e dove il buio dell’eclissi s’è fatto più profondo, il volto umano s’è mostrato in grado di rivelare un fondamentale e inammissibile “resto” di umanità che rimane come unità di misura e metro di giudizio sugli uomini e sulla loro esistenza (cf. II volto nel pensiero contemporaneo, a cura di Daniele Vinci, Il Pozzo di Giacobbe, Trapani 2010). Un intreccio di linee dalle direzioni contrastanti e anche contraddittorie lascia emergere il profilo di una figura enigmatica, eppure familiare: è il volto dell’uomo contemporaneo.
Un uomo “senza casa”
Il nostro tempo è vissuto come un tempo di crisi permanente che pare interminabile. Nella storia umana – secondo Martin Buber – si sono sempre alternate epoche di crisi, da lui chiamate epoche “senza casa” (Hauslosigkeit) a epoche di ritrovamento o “della casa” (Behaustheit). Ci sono cioè epoche in cui l’uomo, trovando risposte soddisfacenti, si è sentito nel mondo come a casa propria e altre in cui le domande si spingevano nell’inesplorato e guadagnavano profondità in cui l’uomo ha errato nella solitudine più completa. Siamo perciò ancora nell’epoca “senza casa”, ossia nell’epoca senza riferimenti (religiosi, cosmici, culturali, etici, sociali, politici), e carenti ormai di immagini sicure del mondo, mentre si è dispersi nella frammentazione e frastornati dalla complessità.
Marko Ivan Rupnik, introducendo il saggio di Autori vari, L’intelligenza spirituale del sentimento, osserva: «Forse è venuto il tempo in cui si può riscoprire il cuore come luogo dell’integrazione, come luogo in cui l’uomo è già intero, non frantumato, smembrato» (T. Spidlík – M. I. Rupnik, Una conoscenza integrale. La via del simbolo, Lipa, Roma 2008, Introduzione).
Un uomo “senza cuore”
La forma più grave con cui si manifesta un uomo senza cuore è quella del cinismo che segna la personalità e l’esistenza del singolo dopo aver informato di sé il tempo e l’ambiente in cui egli vive. Oggi si vive in un simile tempo, venato da cinismo che si fa riconoscere dagli scenari di odio, di disamore, di mediocrità che si parano continuamente dinanzi ai nostri occhi. Questo è indubbiamente un mondo senza compassione, il cui sintomo estremo è il disprezzo perfino della morte e dei morti, che oggi siamo costretti a constatare: «È la nascita di un cinico mondo senza speranze, senza futuro e sembra portare in sé i germi della sua stessa fine» (G. Penati, Modernità e post-modernità nel pensiero filosofico attuale, in Communio, n. 110, marzo-aprile, 1990, 19).
Un uomo che vive in un simile mondo s’ammala di cinismo, che è un modo di concepire la vita senza cuore e che comporta due rischi: il primo è quello di sopravvalutarsi, oltre ogni pudore, pretendendo di diventare l’ombelico del mondo e inaugurando una “liturgia” ridicola, se non fosse anzitutto blasfema, qual è l’inginocchiamento goffo e paradossale verso se stesso; il secondo rischio è di segno opposto: porta a diventare troppo duro con se stesso, facendo perdere la giusta autostima, fino a non valorizzare più i doni che Dio ha concesso (cf. M.G. Masciarelli, Il cuore. Spiritualità. Cultura. Educazione, Tau Editrice, Todi [PG] 2008, pp. 15-27).
È da sperare che possa essere ricostruita una civiltà della compassione e che, infine, possa attivarsi il principio della misericordia nella vita della comunità degli uomini.