La diffusione del linguaggio e delle pratiche terapeutiche nella quotidianità dimostra quanta importanza la cultura contemporanea attribuisca loro. L’affermarsi di questa cultura “terapeutica”[1], di un modo di pensare diffuso che influenza la percezione generale dei fatti della vita, coincide con una radicale ridefinizione della personalità.
Sempre più si incoraggiano le persone a vedersi come impotenti e insicure, a considerare una certa vulnerabilità come una caratteristica psicologica umana e a esternare la propria fragilità interiore. Si è talmente diffusa nel tempo presente un’immagine dell’uomo come “animale vulnerabile”, che il singolo ha finito per dipendere sempre più dall’autorità terapeutica[2].
La crisi come condizione perenne
È in atto una enfatizzazione della fragilità delle persone. La categoria della fragilità (unitamente ai lemmi disturbo e sindrome[3]) è entrata nel lessico comune anche del linguaggio teologico ed ecclesiale fino a soppiantare la categoria di peccato, con una ricaduta sul senso di responsabilità e imputabilità degli atti morali.
La mentalità che si va sempre più diffondendo, anche in ambito ecclesiale, è quella di considerare l’uomo come un essere perennemente in crisi, emozionalmente fragile, e bisognoso di cure e terapie “specialistiche”, per andare avanti: per sopravvivere. Ciò implica il rischio che la società (e anche i percorsi di formazione permanente all’interno del mondo ecclesiale) possa trasformarsi in una specie di gigantesco “setting”.
Il rischio che la cultura terapeutica operi una sorta di deresponsabilizzazione dell’individuo era stato già messo in luce da Cesare Pavese: “Ecco: quel che non ti va della psicanalisi è la evidente tendenza a trasformare in malattie le colpe. Capirei trasformarle in virtù, in modi di essere energici, ma no – si scopre il trauma che fa sì che hai paura, per esempio, dei ranocchi e allora aspetti la guarigione. Balle!”[4].
Uno scrittore danese contemporaneo, Henrik Stangerup, ritiene che questa visione deterministica dell’uomo non sia, in fin dei conti, così vantaggiosa come parrebbe a prima vista. Il suo romanzo L’uomo che voleva essere colpevole è una sorta di ribellione etica a quella concezione dell’uomo, psicologica, sociologica e medica, volta a deresponsabilizzarlo[5].
Il protagonista, ex scrittore, sente crescere in lui un disagio; si percepisce come “un’insignificante pedina in un gigantesco progetto superiore”, 233 Una sera quest’angoscia sfocia in violenza: dopo una litigata con la moglie, la uccide. Il motivo del litigio è stato in apparenza banale: dopo aver seguito una trasmissione alla televisione sui problemi che le fiabe di Andersen possono arrecare ai bambini, Torben ne ha parlato con la moglie, con la quale un tempo condivideva un sentire comune; l’ha, con sorpresa, trovata dubbiosa riguardo agli effetti che tali fiabe potrebbero avere sul loro figlio, lasciatasi forse condizionare dalle opinioni della sociologa alla televisione (che ritiene tali fiabe «un’esaltazione antisociale dell’individuo, del singolo, del “genio a qualunque costo”», 234); Torben ha così iniziato a colpire la compagna fino a ucciderla. Un omicidio a tutti gli effetti, dunque. Nonostante questo, il protagonista del romanzo non viene punito: dopo una cura psichiatrica, viene rilasciato.
Il protagonista non vuole essere lasciato libero poiché rivendica la propria responsabilità sull’atto compiuto: anche l’essere dichiarato colpevole, in una società che deresponsabilizza il singolo, diventa un diritto e un’affermazione del proprio valore in quanto individuo.
Emozioni per gestire il sociale
Questo nuovo conformismo emotivo è una forma di gestione sociale, un governo delle anime più sottile e pervasivo di quanto le religioni e le ideologie del passato siano mai riuscite a fare. Serve a smorzare le tensioni sociali, ad anestetizzare i possibili conflitti, a ridurre al silenzio le voci di ribellione, ridefinendo le questioni pubbliche come problemi privati dell’individuo[6].
Mentre nel diciottesimo e diciannovesimo secolo si parlava di cura delle anime e le malattie che si presumevano guaribili in virtù di tali cure erano spirituali, oggi si parla di cura delle menti; la libera associazione di idee, richiesta dallo psicoterapeuta al paziente durante la seduta, altro non sarebbe se non la versione secolarizzata della confessione che il canone lateranense richiede al fedele.
La figura del sacerdote sarebbe stata prima affiancata, poi in parte sostituita dallo psicoterapeuta: un prete laico che al posto dell’abito talare avrebbe un camice; e per converso, sostituendosi al confessore, lo psicoterapeuta sarebbe diventato una figura sacrale a cui narrare, con la stessa fiducia incondizionata, al posto dei propri peccati, i propri disturbi.
Del fatto che la psicoterapia e la religione cristiana avessero avuto una sorta di influenza reciproca e provenissero dallo stesso terreno comune, ne prese atto perfino l’arcivescovo di Canterbury, George Carey, quando si rammaricò che «nei sermoni annacquati dei ministri della Chiesa, “Cristo salvatore” stesse diventando “Cristo consigliere psicologico”»[7].
La psicologizzazione della vita moderna ha assunto proporzioni impressionanti: negli Stati Uniti ci sono più terapeuti che librai, pompieri e postini e addirittura due volte di più che dentisti o farmacisti. Gli psicologi sono battuti numericamente solo dai poliziotti e dagli avvocati2[8]. Siamo in presenza di una psicologizzazione massiccia della mentalità contemporanea.
Uno dei tanti effetti di quel grande fenomeno della modernità contemporanea che è una malintesa e indebitamente estesa psicologizzazione della vita, ossia la tendenza a spiegare ogni problema che tocca la vita delle persone come conseguenza di traumi psicologici. Fenomeno che ha due effetti fortemente distorcenti per la comprensione del comportamento umano: una tendenza a privilegiare spiegazioni di tipo traumatico-psicologico a scapito di fatti concreti ed evidenti; e la sistematica problematizzazione di comportamenti che si allontanino da una presunta normalità.
Si assiste ad una pervasiva inclinazione a trovare se non prove almeno sintomi o spie di un problema psicologico in qualunque comportamento che appena appena si discosti dalla normalità. Si rischia di “patologizzare” esperienze ed emozioni, stati d’animo e sensazioni che, se valutate da una prospettiva più propriamente filosofica, farebbero semplicemente parte dell’umano esistere, e non di quel tipo di vita umana che necessita di cura poiché “malata”.
«Oggi temiamo di non possedere sufficienti capacità di recupero e di non essere in grado di affrontare la solitudine, le delusioni e i fallimenti. Patologizzando le reazioni emotive negative alle difficoltà della vita, la cultura contemporanea involontariamente incoraggia le persone a sentirsi depresse e traumatizzate da esperienze che prima venivano considerate normali»[9].
Quando il quotidiano diventa malattia
In sostanza, accade che le normali condizioni di sofferenza umana che possono capitare a chiunque nel corso della vita, si trasformino in disturbi mentali da affrontare con precise e pesanti terapie farmacologiche, impoverendo quella che potremmo definire “la diversità umana”, cioè la ricchezza del panorama delle diverse risposte ai fatti della vita: «la diversità umana ha i suoi scopi, altrimenti non sarebbe sopravvissuta alla lotta evolutiva. I nostri antenati ce l’hanno fatta perché la tribù riuniva una vasta gamma di talenti e inclinazioni»[10].
Gli psicologi imperversano, dall’alto delle loro poltrone e dei loro studi clinici, diagnosticando, affabulando, prescrivendo. Il transfert dallo studio o dal centro analitico alla scuola, ai campi gioco e alle famiglie, all’ambito ecclesiale, è globale e imperterrito. Veri e propri guru freudiani della sana educazione ci propinano le loro ricette a spron battuto.
Bisogna però fare molta attenzione a non eccedere nella psicologizzazione del malessere, perché il disagio di fondo cui ci troviamo di fronte è soprattutto un disagio spirituale, culturale e sociale che coinvolge un’intera generazione (e più generazioni) in questa epoca storica.
«La psicologizzazione ideologica della società è destrutturante perché gli individui non fanno che raccontarsi e analizzarsi fino allo sfinimento. La riflessione soggettiva può essere necessaria in certi casi, ma non dev’essere esclusiva: bisogna poter costruire la propria esistenza tenendo conto anche di un’altra dimensione oltre a se stessi, dimensione che, a sua volta, rivela e dinamizza l’individuo, dimensione che è sociale, culturale, morale e religiosa. Bisogna poter concepire la propria vita come un contesto di tutte queste realtà, senza rinchiudersi negli approcci psicologici tanto di moda oggi»[11].
Anche Galimberti ha stigmatizzato la crescente psicologizzazione della società, vale a dire l’incontro tra una domanda di aiuto che affiora con una progressione esponenziale dal corpo sociale, facente capo ad un malessere diffuso che le persone non riescono ad amministrare con i propri strumenti, un’offerta che, all’insegna non già della psicoanalisi ma del cosiddetto pensiero positivo, se ne fa carico, promettendo né più né meno la soluzione di tutti i problemi, se non addirittura la felicità.
A differenza della distinzione che ha dominato troppo a lungo nella Chiesa, fra la salute e la salvezza, oggi si manifesta la tendenza opposta: molti uomini di Chiesa sono pronti a sfruttare la ricerca attuale della salute a ogni costo: lo psicoterapeuta deve guarirmi, Dio può guarirmi.
Pervasività della psicologia
A cosa mira questa invasione della psicologia nella vita quotidiana, se non a creare in noi tutti un senso di vulnerabilità e quindi un bisogno di protezione, di tutela, quando non addirittura di cura? Io penso che la patologizzazione di esperienze umane sino a ieri ritenute normali risponda all’esigenza di omologare gli individui non solo nel loro modo di pensare (a questo ha già provveduto il “pensiero unico”, per cui, come già annotava Nietzsche: «Chi pensa diversamente, va spontaneamente in manicomio»), ma soprattutto nel loro modo di sentire.
E qui non si fatica a scorgere, sotto l’imperativo terapeutico che va massicciamente diffondendosi nella nostra società, l’intento di promuovere non tanto l’autorealizzazione, quanto l’autolimitazione degli individui che, una volta persuasi di avere un sé fragile e debole, saranno loro stessi a chiedere non solo un ricorso alle pratiche terapeutiche, ma addirittura alla gestione della propria esistenza, che è quanto di più desiderabile possa esistere per il potere[12].
Non è infatti difficile intravedere le potenziali implicazioni autoritarie a cui inevitabilmente porta la diffusione generalizzata dell’etica terapeutica, che è la versione secolarizzata dell’etica della salvezza, con cui tenere gli uomini sotto tutela.
Pensiamo per esempio al romanzo 1984, in cui si nota come Giorgio Orwell abbia cercato di rappresentare una società in cui finanche la personalità è un crimine, in cui l’individualità è appiattita, schiacciata, asfaltata.
Galimberti sostiene che, facendo questo, la psicologia è ancella del potere, sancendo la possibilità dell’adattamento e della crescita della personalità senza che ciò implichi un atteggiamento critico nei confronti della normalità dominante, dell’alienazione di potenzialità umane che essa implica e della connivenza dell’io con tale alienazione[13].
Non penso però che il ruolo ancillare della psicologia e della pratica psicoterapeutica rappresenti una scelta tattica o il frutto di un’alleanza con il potere. Esso, purtroppo, è da ricondurre al fatto che l’enfatizzazione della prospettiva piscologica elude qualsivoglia strumento di analisi critica della realtà che consenta di sormontare l’orizzonte dell’esistente. Questo difetto intrappola in una sorta di psicologismo radicale, la cui conseguenza è un’interpretazione (positiva o negativa: dipende dalle formulette adottate) di tutto, ma di fatto si rischia di non comprendere quasi nulla della condizione umana.
Anni fa, Th. Szasz scrisse un inquietante e divertente libricino dal titolo Il mito della psicoterapia[14]. In esso, Szasz, oltre a denunciare l’ambizione della psicoanalisi di sostituire la religione, stigmatizzava la proliferazione di tecniche psicoterapeutiche intese a rispondere, talora in maniera bizzarra, a tutte le difficoltà sperimentate dai soggetti.
L’umano vulnerabile
È fondamentale essere consapevoli che essere vulnerabili implica l’intuizione di essere esposti alla possibilità di soffrire (secondo tutte le modalità possibili di dolore); essere precari alla casualità, accidentalità e, da ultimo, all’insignificanza dell’io in un’ottica naturalistica; essere finiti ai limiti propri della condizione umana che vengono rappresentati (drammaticamente) dall’essere destinati a morire. Accettare queste consapevolezze, nel senso di riconoscere di averle inesorabilmente dentro di sé, confrontarsi con esse e prendere posizione (quale che sia: religiosa o laica), è un passaggio obbligato dell’esistenza umana: un passaggio che, se non produce la felicità, sicuramente può determinare una qualche serenità.
Nel corso degli ultimi anni, la psicologia ha stretto anche un rapporto delicato ma fecondo con i processi formativi dei percorsi vocazionali alla vita religiosa e presbiterale. Va subito detto che, in una prospettiva storica, la psicologia ha avuto un percorso complesso prima di essere inserita a pieno diritto all’interno della formazione dei presbiteri e dei religiosi[15]. È stata necessaria una riflessione lunga e controversa che, partendo da un rifiuto iniziale (dovuto alla novità della disciplina psicologica), ha portato lentamente alla sua integrazione nel contesto formativo[16].
Dobbiamo tuttavia precisare che la formazione presbiterale non è una terapia ma accompagnamento esigente. Pertanto va evitato il pericolo di spiritualizzare la psicologia o di psicologizzare la formazione, in una sorta di reciproca strumentalizzazione.
È necessario lavorare ad una crescita integrale e integrata, che comprende la sfera psicologica, quella affettiva e quella spirituale, evitando gli squilibri di una eccessiva psicologizzazione come quelli di una eccessiva spiritualizzazione.
Si tratta sia di non rendere ultra-tecnico sia di non psicologizzare il discernimento e l’accompagnamento vocazionale. Forse è necessario individuare un nuovo modo di far entrare la psicologia nella formazione, perché sia sempre più a servizio della crescita delle persone e delle istituzioni. La letteratura su quest’argomento è vasta ma è difficile individuarvi delle linee di pensiero ben delineate.
[1] Si utilizza il termie “terapia” mutuandolo dalla medicina. A causa di questa metafora la psicoterapia e diventata “obiettiva nello stesso senso in cui lo è la prescrizione della penicillina, la rimozione chirurgica di un tumore al cervello o la riduzione di una frattura”. T. Szasz, il mito della psicoterapia, Feltrinelli, Milano 1981, p. 25.
[2] A tal riguardo si rimanda al volume di G. Cucci, Abitare lo spazio della fragilità, Ancora, Milano 2014. L’Autore affronta proprio il tema della sempre più diffusa “cultura terapeutica”. Afferma che la salute a tutti i costi (soprattutto psicologica) ha comportato un grave impoverimento culturale e spirituale che sta lentamente spegnendo il gusto di vivere dell’uomo occidentale: l’autore recupera, invece, la dimensione antropologica, spirituale e biblica per la guarigione, accogliendo così anche la bellezza della fragilità.
[3] Dai risultati di una ricerca, risulta che, negli anni Settanta, la parola “sindrome” non compariva né sui giornali né nelle aule dei tribunali. Nel 1985 faceva la sua comparsa in 90 articoli, nel 1993 in 1000articoli e nel 2003 in 8000 articoli di riviste e periodici.
[4] C. Pavese, Il mestiere di vivere, Passerino, Gaeta 2014.
[5] Cf. H. Stangerup, L’uomo che voleva essere colpevole, Iperborea, Milano 2017.
[6] Cf. F. Furedi, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana trad. it. Cornalba, Milano, Feltrinelli Editore, 2005.
[7] F. FUREDI, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana trad. it. Cornalba, Milano, Feltrinelli Editore, 2005, cit. p. 114.
[8] J. NOLAN The therapeutic State: Justifying Government at Century’s end, New York, New York University Press, 1998, cit. p. 8
[9] F. FUREDI, Il nuovo conformismo. Troppa psicologia nella vita quotidiana, trad. it. Cornalba, Milano, Feltrinelli Editore, 2005, p. 11.
[10] A. Frances, Primo, non curare chi è normale, Bollati Boringhieri,, Torino 2014, p. 307.
[11] T. Anatrella, Il mondo dei giovani: chi sono? Che cosa cercano? Giornata Mondiale della Gioventù: da Toronto a Colonia Roma 10-13 aprile 2003
[12] Cf. U. Galimberti, in http://www.mangiabiologico.it/costuiamo-la-pace/1266-la-societa-delletica-terapeutica.html (21.06.2021).
[13] Cf. U. Galimberti, La psiche conformista, Feltirenelli, Milano 2005.
[14] T. Szasz, Il mito della psicoterapia, Felitrinelli, Milano 1981.
[15] 1B. GOYA, Psicologia e Vita Consacrata, Milano, San Paolo, 1996.
[16] Cf. A. DESMAZIERES, L’inconscient au paradis: comment les catholiques ont reçu la psychanalyse (1920-1965), Paris, Payot, 2011; 5PIO XII, Discorso ai partecipanti al Congresso Internazionale di Istopatologia del Sistema Nervoso – I limiti morali dei metodi medici di indagine e di cura, in Discorsi e radiomessaggi di Sua Santità Pio XII, vol. XIV, Città del Vaticano, Tipografia Poliglotta Vaticana, 1952, 319–330; P. FELICI, La psicanalisi, in “Bolletino Clero Romano” (1952), XXXIII, fasc. 4, Roma; SACRA CONGREGATIO S. OFFICII, Monitum, in “AAS 50” III (1961) 10–11, 571; 8A. GODIN, Psychologie de la vocation: un bilan, in “Le Supplément” 113 (1975), 151–236.
Puntuale e straordinariamente lucido. Grazie. Spero sia letto dove si fa formazione al presbiterato e alla vita religiosa. Grazie enzo Bianchi , fondatore di bose
Un giorno per decidere se intervenire. Un fatto, saputo oggi, per convincermi.
Questa notte è riuscita lascarsi morire una ragazza di 25 anni. Da oltre dieci anni stava chiedendo aiuto attraverso l’anoressia. So di lei da oltre cinque anni, senza averla mai vista.
Meriterebbe essere chiamata per nome, ma non lo posso fare per delicatezza.
Ai tecnici, ma soprattutto al contesto in cui viveva, aveva chiesto motivazione e senso per vivere.
Definiamo i termini. È terapeutico tutto ciò che aiuta a star bene e/o a star meglio. Si sta bene o meglio nel corpo e nello spirito. Anima o profondo di sé.
Quante volte abbiamo detto e ci siamo sentiti dire: mettetevi nei miei panni! Una richiesta di essere capiti nel profondo.
Senza, non solo si sta peggio, ma si perde anche l’opportunità di realizzare il meglio che sta in noi.
Ognuno di noi è meglio di quello che crede di essere. È necessario scoprirlo per rendere efficaci i doni ricevuti.
Quando si sta meglio con sé stessi, migliora anche il contesto relazionale che ci circonda.
Il nostro star bene o star meglio diventa un capitale sociale da spendere nelle relazioni.
La psicologia e la psicoterapia sono un aiuto.
Attenti a non confondere i piani! La fede e i sacramenti sono altro.
Confondere, si fa il male di tutti e due i piani.
Una considerazione a parte sulla psicoterapia.
Mi spiego citando un autore che da molto tempo è un mio modello “Evitate le diagnosi. Lasciate che il paziente sia importante per voi…Empatia: guardare dal finestrino del paziente…In terapia la forza del cambiamento non è un’intuizione intellettuale, non è una interpretazione, ma è invece un incontro profondo e autentico tra due persone… Nel corso della mia pratica professionale mi sforzo sempre di avere un incontro autentico con il mio paziente. Tendo a essere attivo, personalmente coinvolto. È raro che una seduta trascorra senza che io mi informi sulla nostra relazione.” Irvin Yalom “Diventare sè stessi”.
Il suo, un percorso da psicanalista classico a questo approccio che coinvolge tecnica, relazione e valorizzazione dell’altro.
Modalità di stare con l’altro che dovrebbe essere comune a tutte le relazioni: genitoriali, amicali e professionali comprese.
Per farlo, occorre valorizzare la psicologia e l psicoterapia.
Sandro Cominardi
Pienamente condivisibili analisi e conclusioni. Sorge spontanea la domanda: come si è arrivati a questa situazione? Ritengo che almeno una delle radici di tale mala pianta affondi nella crisi del Sessantotto. Quel movimento, in un’ansia di redistribuzione del potere – rispettabile, se si vuole – ebbe il torto di voler ridurre l’uomo alla sola dimensione politica/sociale. La guerra al potere fu perduta, essendo a mio parere male impostata come tutte le guerre varate dalle rivoluzioni. Anzi, più che di sconfitta si trattò di un rinnegamento conseguente al compromesso opportunistico con il potere. Del resto ogni rivoluzione ha puntualmente rinnegato i propri principi teorici, riducendosi alla sostituzione dei gestori del potere. Nell’onda del “riflusso” istanze, aspirazioni, obiettivi sono stati ricacciati dallo spazio pubblico a quello privato, interiore all’individuo. Purtroppo anche il cattolicesimo – che ha avuto una parte non marginale nel movimento sessantottino, se pur non enfatizzata dalla vulgata – ha sofferto di tale riduzione all’individuale. Come nel Protestantesimo, la fede sta diventando sempre più fatto privato, rapporto diretto e interiore del singolo con Dio, rinunciando a rendersi mediante ciascun Cristiano visibile al mondo, a rendersi cioè testimonianza.