La debolezza del credere

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Sarebbe arduo tentare di esaurire in poche righe la ricchezza dei testi di Michel de Certeau (1925-1986) raccolti nel volume La debolezza del credere. Fratture e transiti del cristianesimo (Milano, Vita e Pensiero, 2020, pp. 273). Arduo perché i dodici saggi presenti nel volume, stesi tra anni Sessanta e Settanta, sono di profondità, ampiezza di sguardi, varietà di argomenti, molteplicità di contesti tali che meriterebbero un affondo singolo per ogni scritto, tenendo anche presente che la complessità di scrittura e di pensiero del gesuita francese rendono ugualmente riduttivo e inevitabilmente parziale gli sforzi di sintesi.

Ciò che è possibile – e fecondo di ulteriori approfondimenti personali, che lasciamo il lettore – è riconoscere alcuni nodi, alcune linee di intervento, alcuni Leitmotiv che punteggiano il volume, trasversali ai momenti e alle occasioni di riflessione dell’autore. Così, uno dei cardini del ragionamento sempre ricco di stimoli di De Certeau è quello della relazione tra continuità e discontinuità, tra tradizione e novità, tra eredità e futuro, nella certezza che nella storia si situa l’agire del Dio incarnato:

«L’audacia consiste nel voler andare fino al limite delle tensioni e delle ambizioni proprie di un tempo; nel prendere sul serio un tessuto di scambi per attendervi e riconoscervi l’avvenimento di Dio».

In questa direzione si muove De Certeau, poiché egli è stato sempre, nei vari campi interessati dalle sue indagini (spiritualità, teologia, antropologia, semiotica, storia, etc.) uomo delle «tensioni fino al limite», per far scaturire da tale metodo nuove prospettive e nuove intuizioni di letture del pensiero cristianamente ispirato.

Ciò che emerge è che l’autore, con acume, già individua negli anni Sessanta quelle fratture che rompono una tradizione per generare nuove forme del credere, anticipando poi fenomeni manifestatesi negli anni successivi. Così, ad esempio, rilegge la storia di una fede e la vicenda gesuitica nei saggi che compongono la prima sezione del libro (Leggere una tradizione), evidenziando i fenomeni di continuità e discontinuità, facendo discernimento su ciò che deve permanere e ciò che deve essere tralasciato: «La tentazione è la fissazione. Là dove Dio è rivoluzionario, il diavolo appare fissista», poiché «tutto ciò che inietta in una tradizione il veleno di un tempo nuovo è anche ciò che la salva dall’inerzia». La grande sfida è quella di «correre il rischio di esistere per l’oggi», su cui si gioca molto dell’opera intellettuale di De Certeau.

Su questo inevitabile rischio insiste la seconda sezione del volume, opportunamente intitolata Assumere i rischi del presente: qui, oltre a due articoli sulla situazione brasiliana degli anni Settanta e il caso dei fratelli Berrigan (oggi del tutto dimenticato), c’è un saggio che andrebbe meditato e rimeditato, soprattutto in tempi di Sinodo: Autorità cristiane e strutture sociali. Si tratta di un lungo scritto che, partendo da una disamina lucida della società tardomoderna e del suo immaginario («una società tecnocratica, che combina la competenza e il successo»), dove il cristianesimo va esaurendosi, poiché sganciato dalla vita reale e, quindi, ridotto a mero linguaggio, si giunge a un esame profetico di cosa sia esercitare l’autorità e sul metodo di tale esercizio, in relazione ai mutamenti epocali intervenuti nel secondo Novecento.

Ancora, qui è la rifondazione su una Parola e su una Presenza che rendono possibili nuove esperienze cristiane — «Nessuna delle nostre iniziative è identificabile con la Parola, ma esse non sono possibili senza di essa» —, ma tali nuove forme presuppongono un limitarsi dell’autorità, a partire dall’esempio fondativo di Cristo, che limitandosi (egli si fa assente nell’Ascensione per farsi presente diversamente) permette il nascere della comunità, all’interno della quale si colloca un’autorità plurima e molteplice, non assolutista, il cui primo compito è «permettere» ad altri di esistere e di crescere.

Emerge così un secondo nodo attorno a cui ruotano le riflessioni di De Certeau, ossia quello delle fratture (sottotitolo del volume è, infatti, Fratture e transiti del cristianesimo). La frattura, sembra dire il padre gesuita, è uno dei caratteri del cristianesimo, a partire dalla prima e più importante frattura, quella dell’Incarnazione del Verbo nella storia. Le altre fratture, necessarie nello scorrere del tempo, si rileggono a partire proprio da quella prima, e solo alla luce di essa si giudicano «in termini di compatibilità o incompatibilità».

Gli spunti per l’oggi sono davvero numerosi, fertili e mai banali, ancorati a una libertà creativa di pensiero e a un’intelligenza del futuro che stupisce, se si pensa a quanto di ciò che De Certeau scorgeva si è poi realizzato, anche cogliendo quei ‘transiti’ non rimandabili (ma forse, purtroppo, in realtà rimandati) e quelle prese di coscienza (ad esempio, sullo statuto della teologia nel mondo del paradigma scientifico assoluto) che il pensiero e la prassi cristiana avrebbero potuto accogliere e rielaborare per tempo, non condannandosi sempre a «inseguire», magari abitando (criticamente sempre, passivamente mai) il passaggio tra epoche.

In questo senso, un altro tema di persistenza è dato dalla «debolezza del credere», che dà il titolo al volume, che non va negato né rimosso. È questa la realtà:

«Un tempo la Chiesa organizzava un suolo, cioè una terra costituita: al suo interno si aveva la garanzia sociale e culturale di abitare il campo della verità. Anche se l’identità legata a un luogo, a un suolo, non è stata veramente fondamentale nell’esperienza cristiana (l’istituzione non è altro che ciò che permette alla fede un’obiettività sociale), su questa terra si potevano radicare le coorti di militanti che vi trovavano la possibilità e la necessità della loro azione. […] Al presente, simile a quelle rovine maestose da cui si traggono pietre per costruire altri edifici, il cristianesimo è diventato per le nostre società il fornitore di un vocabolario, di un tesoro di simboli, di segni e di pratiche reimpiegate altrove. Ciascuno ne usa alla propria maniera, senza che l’autorità ecclesiale possa gestirne la distribuzione o definirne a propria volta il valore come senso […]. Individui, gruppi utilizzano “materiali cristiani” che articolano a modo loro, e fanno ancora giocare abitudini cristiane, senza tuttavia sentirsi obbligati ad assumere l’intero senso cristiano. Così il corpo cristiano non ha più identità: frammentato, disseminato, ha perso la sua sicurezza e il suo potere di generare, con il suo solo nome, delle militanze». Ma questa situazione, che è di debolezza, non è lontana da una situazione cristica: «Si tratta di accettare di essere deboli, di abbandonare le maschere ridicole e ipocrite di una potenza ecclesiale che non c’è più, di rinunciare alla soddisfazione e alla “tentazione di fare del bene”. Il problema non è sapere se sarà possibile restaurare l’impresa “Chiesa” […]. La sola questione che conta è la seguente: si troveranno cristiani che vogliano cercare queste aperture oranti, erranti, ammiranti? […] Nessun cristiano è cristiano da solo, per se stesso, ma piuttosto in riferimento e in legame all’altro, nell’apertura a una differenza cercata e accettata con gratitudine. Questa passione dell’altro […] è una fragilità che spoglia le nostre solidità e introduce nelle nostre forze necessarie la debolezza del credere».

Sono parole germinative, sono profezie feconde di speranza di cui abbiamo bisogno; sono arcate di pensiero rette dalla «responsabilità» coerente di «colui che esercita una coscienza viva dell’annuncio della propria parzialità profetica»: così scrive Stella Morra nella prefazione al libro, cogliendo la forza delle parole di Michel de Certeau, un discepolo dei grandi mistici – da lui amati e studiati – e dei grandi pensatori francesi – «c’era del Pascal in lui», annota Luce Giard nel saggio introduttivo che apre la raccolta –, un cristiano capace di ancorarsi nel cuore del tempo per sentire il soffio silenzioso dello Spirito.

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