Dante si trova nel Cielo stellato, porta d’ingresso a più divine realtà. Cristo e Maria sono risaliti nell’Empireo. Rimangono i beati, splendenti nella loro luminosità, e trionfanti nell’unità armoniosa della carità.
Davanti ad essi, Dante celebrerà quella fede che essi hanno seguito e annunciato, esaminato da «colui che tien le chiavi di tal gloria». È uno di quei momenti di passaggio, lungo il viaggio oltremondano, da una condizione spirituale a un’altra più alta e pura. Momenti di confessione e di incoronazioni.
L’esame non vuole accertare se Dante possegga la fede: tutti in cielo sanno che la possiede, perché lo leggono in Dio, dove «ogne cosa dipinta si vede». Tutti sanno che egli ama e spera «bene», che è un «eletto», un figlio della Grazia. San Pietro lo apostroferà come «buon cristiano», e Dante sa di esserlo: non solo perché è battezzato, ma perché vive intensamente la fede «datagli» dalla parola di Dio, riversatasi in lui come pioggia abbondante. Con quale trasporto dice: «Io credo… e credo… e credo»! Con che orgoglio e forza d’immagini rivela di possederla, luminosa e vera!
Ma non è l’orgoglio del dotto, né superba esposizione d’una cultura teologica, né ostentazione di bravura. È glorificazione d’un tesoro interiore, «un inno dissimulato alla fede, al quale partecipa, non meno del pellegrino assunto al cielo in forza di questa virtù, il santo che tiene le chiavi del regno della fede. Qui l’analisi verso per verso non dice nulla: la poesia è nel respiro che trascorre per tutta la pagina. E, pur nella materia dotta, il verso si svolge non con la violenza d’una conquista, ma con la sicurezza serena di possesso» (Momigliano).
Tutto è come ispirato. Il sentimento prevale sulla ragione, l’ardore del credente sulla dimostrazione del teologo, i libri di Dio su quelli di Aristotele e di Tommaso. Le numerose metafore e riferimenti biblici sono una necessità, non uno sfoggio; non limitatezza di fantasia, ma riferimento poetico alla parola divina, per celebrare una virtù non più umana, ma divina. Chi nel canto XXIV del Paradiso non scorge questo, non vi scorge la poesia, né il calore delle immagini.
L’esame si è aperto con la danza gioiosa dei beati e il divino canto di san Pietro, e si chiude con un inno celestiale di ringraziamento a Dio (il Te Deum), risonante di corona in corona (o nelle sfere celesti): Dante ha discusso la fede nella sua completezza. Ora deve professarne il contenuto e indicarne le fonti. E con l’entusiasmo più pieno professa:
«[…] Io credo in uno Dio | solo ed etterno, che tutto ’l ciel move, | non moto, con amore e con disio; || e a tal creder non ho io pur prove | fisice e metafisice, ma dalmi | anche la verità che quinci piove || per Moïsè, per profeti e per salmi, | per l’Evangelio e per voi che scriveste | poi che l’ardente Spirto vi fé almi; || e credo in tre persone etterne, e queste | credo una essenza sì una e sì trina, | che soffera congiunto “sono” ed “este”».
Credo in un Dio unico, eterno principio del moto (della creazione), non soggetto a moto. E in Dio credo tre persone eterne; e credo alla loro natura una e trina, la quale, quando ne parliamo, permette di usare, per indicarla, sia il plurale (sono), sia il singolare (este). Questa è la profonda condizione dell’essere divino, il più grande mistero di Dio, dogma distintivo della fede cristiana.
La fede in questa verità – dice Dante – non l’ho solo grazie a prove razionali; me le dà anche la verità che dal cielo scende come pioggia attraverso Mosè, i profeti, i salmi, il Vangelo, e ciò che voi, apostoli, avete scritto dopo che vi illuminò l’ardente Spirito.
Dante considera le prove razionali, sebbene poco prima abbia specificato che ogni altra dimostrazione gli sembra debole, rispetto alle Scritture, che sole gli «conchiudono» la fede in modo certo.
Ciò che il creato rivela di Dio, e ciò che la mente dell’uomo riesce a concepire di lui, è importante, ma non sufficiente rispetto ai suoi profondi misteri, per i quali occorre la Rivelazione: la verità che ora vedo chiaramente qui in cielo.
Dante mostra i limiti della ragione umana, che impediscono all’uomo di inoltrarsi nelle «profonde cose» di Dio. La fede supplisce ciò che i sensi, nella loro limitatezza, non possono comprendere. Il fondamento della fede non è la ragione, ma la Rivelazione. Si comprende, perciò, perché in questo canto della fede Dante usi quasi esclusivamente la parola di Dio rivelata dalle Scritture, facendo sue queste fonti.
Come Dante tace, la luce dell’apostolo, cantando, lo benedice e gli gira intorno tre volte. Gesto gioioso, con il quale Pietro lo incorona per la sua fede. È il trionfo di quella virtù nella quale confluisce la sua vita e la sua opera: il «poema sacro», appunto.
Questo trionfo significa per Dante il riconoscimento della piena dignità a svolgere la sua missione tra gli uomini. A questa professione segue, infatti, la confessione d’un desiderio terreno, legato alla fede. Con quel poema vorrebbe tornare nel suo bel San Giovanni e ricevere il nome di poeta, là dove ebbe quello di cristiano e cittadino. Due riconoscimenti all’insegna di un’unica motivazione: l’uno verificatosi, l’altro desiderato; nell’uno c’è la gioia dell’incoronazione, nell’altro la tristezza d’una speranza impossibile, resa più acuta dalla coscienza di quell’incoronazione; nell’uno si esprime una realtà (spirituale), nell’altro l’immaginazione d’una realtà («se mai continga»). Se, infatti, Dante non può tornare nella patria terrena, spera almeno di tornare in quella celeste.
Così, insieme all’orgoglio di poeta, c’è l’orgoglio del credente. Se mancasse questo, quello sarebbe superbia; con questo, acquista un significato ultraterreno. L’uno e l’altro devono servire a «rimuovere coloro, che in questa vita vivono, dallo stato di miseria, e indirizzarli allo stato di felicità». Questa è la missione affidatagli da Dio.