Intervista a Paolo Cognetti, regista del docu-film Fiore mio uscito nelle sale italiane a fine novembre (qui).
- Caro Paolo, come hai messo insieme il lavoro di scrittore con quello di regista?
Ho fatto, anni fa, la scuola di cinema e ho prodotto alcuni documentari all’inizio degli anni 2000. Poi, per vent’anni, mi sono dedicato alla scrittura di romanzi. Mi è venuta voglia di riprendere la regia con questo film.
Scrivere e fare la regia, sono due modi diversi di lavorare: il primo si fa da soli in una stanza o, per me, in un bosco, perché è un lavoro individuale, personale; il secondo si fa con altri. Questo cambia tutto. Fare un film è un’impressa di gruppo. Mi è piaciuto molto fare questo film.
- Come sono stati costruiti i dialoghi, o come sono arrivate quelle parole al film?
È un film fatto con persone e da persone che conosco da tanto tempo, persone amiche dei rifugi di montagna. A me piace andare per rifugi e parlare con queste persone. Lo faccio da tanti anni.
Le conversazioni che hai ascoltato nel film sono venute perciò in maniera del tutto spontanea, espressione della nostra frequentazione. Io ho posto loro solo le domande. Ho raccolto le loro risposte – le voci anche diverse – per comporre un discorso continuo in cui mi riconosco.
- I suoni e le immagini dell’alta montagna del Rosa come sono ora nel film?
I suoni sono stati registrati da Paolo Benvenuti, un amico che nel 2023 ha vinto l’Oscar europeo per il suono. Le riprese in cui mi muovo per la montagna col mio cane Laki sono di Michele Alliod un altro amico con cui mi trovo molto bene; mentre le riprese con più persone sono di Ruben Impens, direttore della fotografia del film Le otto montagne tratto dal mio romanzo.
Solo le “planate” sui ghiacciai sono state realizzate con i droni. Il resto è stato fatto tutto “a mano”.
- E le musiche?
Ho dato totale fiducia ad un musicista come Vasco Brondi. È una persona dalla forte tensione spirituale. Sapevo che avrebbe fatto benissimo. Mi ha presentato musiche meravigliose ed io non ho fatto altro che scegliere dove metterle. Le musiche esprimono quel che lui sente quando attraversa i boschi o scende lungo i torrenti. Il nostro “sentire” è comune.
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- Il filmato parte dal fatto che nella tua baita non è arrivata l’acqua dall’alta montagna, cosa mai successa prima. Come viene vissuto questo fatto?
I miei amici – che vivono là – si sentono osservatori più che custodi della montagna. Sono fatalisti rispetto ai cambiamenti climatici e alle trasformazioni che avvengono in montagna. Non ci possono fare nulla. I cambiamenti climatici sono determinati da quelli che vivono nelle città e, ovviamente, nel mondo intero. Se manca l’acqua è a causa della attività umana.
Ma loro continuano a guardare le loro montagne, verso l’alto, perché sanno che continueranno ad essere meravigliose.
- Il Corriere della Sera ha definito il tuo film «contemplativo». Per te?
Sono pochi ormai gli angoli del mondo in cui possiamo incontrare la terra del “primo giorno della creazione”, cioè luoghi in cui l’umanità non ha ancora messo piedi e mani. In quei luoghi io avverto una particolare tensione spirituale: il senso delle origini e il senso del divino, forse.
Quando si dice che la natura è un tempio, per me significa questo: entrare in un mondo non alterato dagli umani.
- Il tempio del Monte Rosa non è forse ormai profanato?
Sono andato e vado dove non arriva ancora nessuno: dove non ci sono turisti.
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- A quale religione appartiene il tempio della natura, se così si può dire?
Io sono diventato buddista. Quasi tutte le persone del film lo sono. Nel buddismo si dà armonia tra umanità e natura, tra essere umano e umano, tra umano e animale o vegetale.
Il buddismo è una religione dell’equilibro e della pace. Io ero alla ricerca di questo. L’ho trovato. Nel cristianesimo, nella chiesa cattolica, non ho trovato una tale armonia. Perciò nel film non c’è nulla che richiami il cristianesimo.
- Al termine del film, Arturo, Marta, Remigio, Mia, Corinne e Sete dicono «io vorrei…» esprimendo il loro desiderio. Sete – lo sherpa italo-nepalese – dice «io vorrei… niente». Perché?
Nel buddismo la sofferenza viene dal desiderio di qualcosa che non si possiede. Quindi l’essenziale è liberarsi del desiderio, perché si ha già tutto di cui si ha bisogno per vivere bene: non si desidera altro. Sete dice proprio questo: mi sembra un pensiero molto bello.
- Se anche tu avessi detto, nel film, «io vorrei…», cosa avresti aggiunto?
In questo momento ti sto parlando da un ospedale psichiatrico. Ora vorrei uscire da qui, essere libero, vivere libero, con le mie scelte, col mio modo di stare al mondo, col mio lavoro creativo. Non vorrei altro.
- Tutti possiamo permettercelo?
Di altri non so. Io me lo posso e me lo voglio permettere. Penso di esserci vicino.
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Il tuo cane – Laki- è tra i protagonisti del film: cosa avrebbe detto?
Lui vorrebbe stare sempre con me, andare in montagna con me, vivere sempre insieme. È il mio “piccolo veicolo”, secondo la definizione che si dà nel buddismo: il veicolo che porta alla saggezza. Laki è per me dunque un veicolo, per imparare a vivere saggiamente: mi insegna, ad esempio, il legame affettivo, mi insegna la pazienza, mi insegna il silenzio. Abbiamo tanto da imparare dagli animali.
- Il mondo con i suoi grandi problemi, dove sta nel film?
L’umanità è chiaramente proiettata verso l’autodistruzione. E io non posso farci niente. Io posso soltanto essere gentile con le persone che ho attorno, amare le persone che amo, rendere la mia vita più bella, operando ogni giorno il mio cambiamento interiore.
Ciò non basterà ad arrestare le guerre, ma a seminare del bene per il mondo sì. E chissà poi quel bene dove andrà finire.
Paolo, permettimi di dirti che al termine di “Fiore mio” pensavo queste parole del vangelo: “Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure, io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro” (Matteo cap. 6).