La storia che non c’è: Sulpicia

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sulpicia

La parola è, nella storia, un privilegio per pochi, e, quando è scritta, lo è ancora di più. Dal diritto di parola al diritto di dare il proprio nome alle proprie parole, la strada che porta al diritto d’autore è lastricata di esclusioni.

 “Autore” è un vocabolo impegnativo: auctor, nella lingua latina, è chi crea e chi si fa garante. La valenza giuridica del termine ne conferma peso e autorevolezza: è nel dispiegarsi delle funzioni e delle prerogative di un auctor che si dà auctoritas – non altrove, non altrimenti. Istruzione, conoscenza e scrittura non sono solo privilegi, sono luoghi d’esercizio d’autorità.

Consegnare le proprie parole alla forma scritta implica il potersi porre come garante di ciò che si è scritto, il poterne assumere la paternità. (Postilla linguistica tra parentesi: impariamo a parlare dentro un universo sonoro che chiamiamo lingua materna, ma delle opere di scrittura rivendichiamo la paternità – cosa che, in modo non neutro, ha a che fare con la pratica di dare il nome o, meglio, il cognome).

Se “autore” è un termine che pesa, “autrice” pesa molto, molto di più. Un peso così insostenibile da rendere preferibile l’invisibilità. Per le donne, meglio un sano anonimato e che le loro parole-pensiero, le loro parole-scrittura, qualora vedano la luce, vengano subito fagocitate e recluse nella scrittura dei maschi – gli unici autorizzati a farsi autori, a firmare, dare il nome e rivendicare paternità.

Ecco allora un’altra storia che non c’è, nascosta, questa volta, in un libro che, sul frontespizio, porta il nome di un autore maschio e famoso. Lui è il grande poeta elegiaco latino Tibullo. Lei è Sulpicia, l’unica poetessa latina di cui, accuratamente celati fra le pagine di un’opera che non è la sua, ci sono giunti dei versi.

Il nome del padre

Il nome del padre è già un’identità. Anzi, è l’identità. Nascere femmina, a Roma, significa non avere un nome proprio, ma assumere, al femminile, il nome della gens paterna. Questo spiega la schiera di Giulie nate in seno alla gens Julia, Tullia figlia di Marco Tullio Cicerone, Antonia figlia di Marco Antonio, e Cornelia, la madre dei Gracchi, figlia di Publio Cornelio Scipione.

Dietro il nome della poetessa Sulpicia c’è il nome del padre, Servio Sulpicio Rufo, e c’è il nome della gens Sulpicia, stirpe di oratori e giureconsulti, tra cui spicca lo zio paterno, giurista di grande fama legato in amicizia a Cicerone.

Il nome Sulpicia, come tutti i nomi femminili romani, è espressione di un’onomastica che è, in realtà, una unomastica – a Roma i nomi delle donne non sono veri onoma, nomi propri, ma sono ounoma, non-nomi –, con il conseguente, inevitabile corollario: invisibilità a livello sociale, inferiorità a livello giuridico.

L’assenza del nome è segno dell’assenza di capacità giuridica: chi non ha nome non può avere titolarità di diritti, chi non ha nome proprio non può dare il proprio nome.

Sulpicia aveva anche una madre, naturalmente, e poiché il nonno materno apparteneva alla nobiltà di antica data dei Valerii, sua madre non poteva che chiamarsi Valeria.

Anche lo zio materno, fratello di sua madre, era un uomo famoso, niente meno che Marco Valerio Messalla Corvino, il grande generale e uomo politico che, in età augustea, aveva animato un circolo letterario schierato su posizioni, se non di aperto contrasto, quanto meno alternative rispetto a quelle espresse dal circolo di Mecenate, promotore, invece, di un impegno culturale completamente a servizio del progetto politico augusteo.

Attorno allo zio di Sulpicia e al suo circolo gravitavano i poeti della grande stagione elegiaca romana, Tibullo, il giovane Properzio, Ovidio. È proprio sullo sfondo di questo ampio respiro culturale che, possiamo immaginare, Sulpicia muove i suoi primi passi verso la poesia.

Libri nel cassetto

Sulpicia è, come tante ragazze della Roma bene del tempo, una docta puella. Appartiene ad una nobilissima e altolocata famiglia, e questo le dà la possibilità di ricevere un’ottima istruzione. Studia, entra in confidenza con il mondo della letteratura e della poesia, compone versi. Compone, ma non pubblica, ed è qui la differenza decisiva rispetto ai poeti maschi.

Pubblicare un libro, porsi come auctor, ha a che fare con l’esercizio di quella auctoritas che alle donne – secondo i Romani, e secondo molti altri, prima e dopo di loro – è preclusa per natura.

Un libro editato a firma di una donna implica un’esposizione pubblica che va a collidere con l’idea di un femminile naturalmente vocato alla dimensione chiusa della famiglia e della casa, pensato come intro-verso per natura nella sfera dell’intimo, contrariamente al maschile per natura estro-verso sul pubblico e sul sociale.

Pubblicare il libro di una donna significa, implicitamente, attribuire alla parola femminile un’autorevolezza eccedente l’ambito circoscritto del privato, del domestico e del familiare. Un eccesso inammissibile.

Sulpicia conosce e frequenta i poeti elegiaci, ne legge le poesie, legge loro le proprie. Ascolta i loro commenti, fa tesoro dei loro consigli. Qualcuno, che coglie e apprezza la qualità della sua stoffa poetica, l’incoraggia a proseguire e forse l’aiuta a cercare una strada che possa darle visibilità anche al di fuori del circolo di Messalla, in cui la giovane figlia di Servio Sulpicio Rufo è, per altro, pienamente inserita.

Intanto Tibullo pubblica. Un primo libro contiene dieci elegie, il secondo sei. Il terzo libro porta il suo nome, ma in realtà i componimenti poetici contenuti al suo interno sono tutti di altra mano. Quando, dopo la prima edizione a stampa del 1472, il Corpus Tibullianum torna ad essere letto e ammirato dagli intellettuali europei, il terzo libro del Corpus, la cosiddetta Appendix Tibulliana, comincia a generare questioni.

Fa questione, soprattutto, la voce femminile che, in alcune di quelle poesie, parla di sé in prima persona. Le ipotesi che si susseguono sono tutte marcatamente segnate dal pregiudizio di genere: poiché una donna non può scrivere poesie, quella voce femminile non può che essere una finzione, una persona poetica, Tibullo stesso che, in un sublime esercizio di mimesi, assume veste e voce di donna.

Dobbiamo arrivare all’Ottocento prima che, a quella donna che si permette il lusso di scrivere poesie, venga concesso uno statuto di credibilità.

E, a questo punto, anche i giudizi di merito si trovano a pagare dazio al sessismo: se, auctore Tibullo, la lingua era stata giudicata come un latino originale, elegante e raffinato, davanti all’ipotesi che, dietro quei versi, possa celarsi una donna, non mancano i critici che parlano senza mezzi termini di un brutto e dilettantesco “latino femminile”.

Oggi l’attribuzione alla poetessa Sulpicia delle sei elegie più brevi dell’Appendix Tibulliana – quaranta versi in tuttoe il riconoscimento di un’autorialità femminile è sostanzialmente unanime, anzi, l’interesse si va spostando anche ai componimenti più lunghi che, con le sei elegidiae, formano il cosiddetto “ciclo di Sulpicia”.

Oltre gli stereotipi viziati di maschilismo, che proponevano una netta suddivisione tra poesie brevi di Sulpicia e poesie lunghe ed elaborate – e per ciò stesso di mano maschile – su Sulpicia, nuovi lavori accademici vanno esplorando gli stilemi formali e le idealità contenutistiche e letterarie di tutti i componimenti del ciclo, portandone ad evidenza la coerenza di fondo. Grazie a queste ricerche, ci viene restituito il volto di una poetessa raffinata, capace di un dialogo vivo e alla pari con la sua contemporaneità artistica e letteraria.[1]

Non sappiamo per quale fortunata combinazione le poesie di Sulpicia non siano rimaste nascoste sul fondo di una cassa, in balìa dell’usura del tempo, ma abbiano preso una strada che ha dato loro la possibilità di raggiungerci. Leggerle, oggi, significa incontrare la voce di una donna che mette a nudo il proprio sentire, con quella sapienza di partire da sé che diventerà uno dei motivi fondatori delle riflessioni femministe del Novecento.

Cum digno digna fuisse ferar

Sulpicia non solo parla di sé, ma autorizza sé stessa a presentarsi come soggetto di desiderio. Ecco la pietra di scandalo di questa straordinaria maternità poetica: la donna, musa tacita e passiva, perenne oggetto del desiderio maschile, in Sulpicia assume tutt’altra postura, dando voce alla propria ricerca di felicità attraverso un corpo felicemente sessuato. Tanto bastava per una censura più che millenaria.

È giunto finalmente l’amore e a coprirlo di pudore
ne avrei più disgusto che a rivelarlo.

Citerèa, implorata dalle mie poesie,
l’ha condotto e affidato al mio seno.
Venere ha esaudito le promesse:

vada pure sparlando delle mie gioie
colui di cui si dice che non ha mai goduto le sue.
Io non vorrei affidare allo scritto le mie parole,
perché nessuno le possa leggere prima del mio amore;
pure, sono felice di avere peccato

e mi disgusta conformare il volto alle attese:
si dica piuttosto che io, degna, sono stata con uno degno di me.


[1] Novella Nicchitta, Enciclopedia delle donne, sub voce Sulpicia (https://www.enciclopediadelledonne.it/edd.nsf/biografie/sulpicia)

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Un commento

  1. Laura 28 luglio 2024

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