L’aiuola che ci fa tanto feroci

di:

dante

Andare all’Inferno è sprofondare in una voragine nera, giù, sempre più giù, dalla selva oscura fino alle viscere ghiacciate della terra; il Purgatorio è un quotidiano cammino in salita, scandito dall’alternarsi di albe e crepuscoli, intessuto di ricordi e di poesia; il Paradiso è un cielo di luce.

Attorno alla Terra, immobile al centro dell’universo, ruotano in perpetuo movimento nove cieli concentrici: i primi sette sono i cieli dei pianeti – Luna, Mercurio, Venere, Sole, Marte, Giove, Saturno; l’ottavo è il cielo delle stelle fisse; il nono è il Primo Mobile, il cielo che non contiene astri visibili, ma è origine e sorgente del movimento per tutti gli altri cieli. Al di sopra di queste nove sfere celesti si trova l’Empireo, l’infocato, l’ardente, il più alto dei cieli, eternamente immobile, non toccato dallo spaziotempo. Qui abita Dio.

Il grande desiderio

Giungere al ciel ch’è pura luce, alla luce intellettual, piena d’amore: è questo il grande desiderio di Dante. Ma per contemplare la pienezza della Luce bisogna imparare a vedere e bisogna imparare a volare.

E Dante impara, impara. Si mette alla scuola di Beatrice, le si affida, vola. E, mentre passa di cielo in cielo, la sua vista si fortifica e si raffina, si fa capace di accogliere e assorbire in sé sempre più luce, sempre più chiarore, così da prepararsi alla visione suprema di Dio.

Siamo al canto XXII del Paradiso. Volando di cielo in cielo insieme a Beatrice, Dante giunge al cielo delle stelle fisse, proprio nella costellazione dei Gemelli, sotto il cui segno era nato, tra il maggio e il giugno dell’anno 1265. Il volo è stato rapido e vertiginoso. Manca poco, ormai, per toccare l’Empireo e raggiungere la pienezza dell’Incontro:

«Tu se’ sì presso a l’ultima salute»,
cominciò Beatrice, «che tu dei
aver le luci tue chiare e acute;
e però, prima che tu più t’inlei,
rimira in giù, e vedi quanto mondo
sotto li piedi già esser ti fei».

Beatrice ricorda a Dante che la meta ultima, Dio, beatitudine suprema, è vicina; per questo lo invita a rinforzare lo sguardo, rendendo i suoi occhi ancora più acuti e chiari: prima di inleiarsi, prima, cioè, di entrare e penetrare nella beatitudine divina, Dante deve rivolgere lo sguardo in basso e prendere consapevolezza del tragitto compiuto. Soprattutto, deve invertire il proprio punto di osservazione e capovolgere le proprie prospettive. Sì, perché Dio è vicino, ma per prepararci all’Incontro che dà senso alla vita dobbiamo imparare a guardare il mondo da un altro punto prospettico: da lassù.

Da lassù, Dante trascorre con lo sguardo la smisurata distanza percorsa, vede i sette pianeti, ne distingue le dimensioni, la velocità della rotazione, le distanze reciproche:

Col viso ritornai per tutte quante
le sette spere, e vidi questo globo
tal, ch’io sorrisi del suo vil sembiante.

Da lassù, la visione della piccolezza della terra strappa a Dante un sorriso.  A confronto con lo spazio cosmico, che pure, per Dante, è uno spazio finito, il nostro pianeta è davvero poca cosa – nient’altro che un pezzo di terra che gli uomini si contendono con ferocia:

L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci;
poscia rivolsi li occhi a li occhi belli.

La consapevolezza della piccolezza della terra diventa consapevolezza della caducità e della vanità delle cose del mondo. E perciò, dal caduco transeunte, Dante torna a rivolgere il suo sguardo agli occhi belli di Beatrice, maestra nell’amore e maestra nel volo che lo condurrà a Dio.

Il Somnium Scipionis

Che la terra sia un punto di niente lo aveva detto anche Cicerone, con un’immagine altrettanto efficace e probabilmente fonte di ispirazione per lo stesso Dante, nel suo Somnium Scipionis. In questa opera tanto amata dai lettori medievali, il grande generale romano Scipione Africano Maggiore, trionfatore su Annibale e sui cartaginesi, modello di ogni italico eroismo (è suo l’elmo di Scipio del Canto degli italiani, per intenderci), appare in sogno, dopo la morte, al nipote Scipione Emiliano e lo invita a contemplare la terra dall’alto della Via Lattea. All’Emiliano che ripensava a quella visione lontana, Cicerone faceva pronunciare queste parole:

Iam vero ipsa terra ita mihi parva visa est, ut me imperii nostri quo quasi punctum eius attingimus paeniteret.

Anzi, la terra mi apparve così piccola, che io provai pena del nostro impero con il quale noi ne arriviamo a toccare, si può dire, solo un punto.

Ci facciamo la guerra, ci ammazziamo, ci scanniamo, per due metri di niente. Parola di Scipione.

A Pale Blue Dot

Agli inizi del 1990 la sonda Voyager 1 si trovava a sei miliardi di chilometri oltre l’orbita di Nettuno, l’ultimo dei pianeti giganti del Sistema Solare esterno. Il 14 febbraio, su proposta dell’astronomo e divulgatore scientifico statunitense Carl Sagan, l’obiettivo dell’apparecchiatura fotografica della sonda venne rivolto verso il nostro pianeta. Fu così scattata la fotografia che ancora oggi è considerata una delle più spettacolari immagini riprese dallo spazio del nostro pianeta: vista da sei miliardi di chilometri di distanza, la terra, questa aiuola che ci fa tanto feroci, non è che un Pale Blue Dot, un pallido puntino azzurro, quasi invisibile, solitario e sperduto nel cosmo infinito.

A Pale Blue Dot

A Pale Blue Dot

Ad un libro, intitolato proprio Pale Blue Dot, Carl Sagan consegnò le riflessioni che quell’immagine gli aveva suscitato: un invito a vivere fra di noi in pace e con spirito di fratellanza e a prenderci cura del nostro pianeta, l’unica possibilità di vita che abbiamo a disposizione nell’intero, sconfinato universo.

Il potere e la gloria, che tragica illusione… Odi feroci, crudeltà inenarrabili, guerre, fiumi di sangue, e tutto solo perché i quattro potenti di turno possano, per un attimo brevissimo e insignificante, sentirsi padroni di una meschina frazione di un piccolissimo punto di niente.

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2 Commenti

  1. Carla 25 marzo 2025
  2. Laura 25 marzo 2025

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