L’arte degli affetti

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La fine di una storia d’amore non scivola via come se niente fosse. Si rimane segnati, perché l’altro si è inciso letteralmente nel tuo corpo. Il suo venire meno lascia una ferita aperta, che non si rimargina completamente neanche quando hai avuto la fortuna (e la benedizione) di trovare un’altra persona cui concedere la fiducia del donarsi del tuo corpo. Per mille ragioni l’amore, che davvero c’è stato, può morire anche se hai fatto sinceramente il meglio di cui sei capace perché questo non avvenisse. Ma come di ogni morte, esso lascia tracce indelebili del suo pur sempre essere stato. Quella più evidente, quella che ti ritrovi davanti ogni giorno, è quella della generazione. Certo, in primo luogo la generazione dei figli ma non solo. Perché l’amore genera mondi, memorie, luoghi. Alla fin fine l’amore genera la storia stessa che noi siamo oggi. Possiamo tentare di rimuoverla come d’incanto, immaginandoci l’infatuazione di un altro legame che immediatamente si sostituisce a quello che eravamo. Oppure possiamo crogiolarci nello sconforto di qualcosa che si è irrimediabilmente perso e che nulla potrà sostituire. Tra questi due estremi, una varietà innumerabile di gradazioni come lo sono le storie d’amore cui l’umano sembra non voler cessare di dare corpo.

Raramente la fine di un amore è “consensuale”, anche quando entrambi sentono il suo giungere alla fine. Insomma, anche nel caso migliore (strano chiamarlo così) si produce comunque una disparità, un’asimmetria. Che si traduce, forse senza rendercene conto pienamente, in un potere sull’altro: se non altro quello di dichiarare la fine. E ancor più raramente sappiamo trovare parole per dire di questa fine. Questo perché già prima eravamo in difetto di un linguaggio che narrava del nostro amore, che dava parola allo stare insieme che costruiva le nostre personalissime storie. L’intreccio fra asimmetria del potere e assenza della parola è da sempre l’alcova oscura nella quale crogiolano le braci mai spente della violenza fra gli esseri umani – anche tra coloro che si sono sinceramente amati. Il lessico civile degli affetti non solo sembra oggi essersi immiserito, ma è anche esposto alle barbarie di un linguaggio senza spessore, in difetto di espressione, ridotto a sondaggio della superficialità emotiva del momento. La miseria di una faccina a cui affidiamo l’attimo fuggente di uno stato d’animo mi sembra essere semplicemente indegna dell’umano come essere capace di linguaggio. I nostri antenati hanno combattuto una lotta inimmaginabile contro il mero istinto di una semplice osmosi con la natura e le sue leggi per conquistarcelo, e noi con l’indifferenza della moda del tempo stiamo distruggendo ciò che generazioni immemori hanno partorito proprio per noi.

Frequentare quotidianamente, come se nulla fosse, questa degradazione del linguaggio degli affetti e rivendicare sdegno per la violenza che si genera dalla fine di un legame affettivo è una delle contraddizioni più allarmanti del nostro tempo. Non perché non si debba sentire ribrezzo per quella violenza, ma perché un po’ tutti vi contribuiamo credendo che ne saremo comunque immuni – certo non noi, drammaticamente e incomprensibilmente sempre altri. Senza accorgercene, acconsentendo allo svilimento del linguaggio umano, addestriamo giorno per giorno i nostri cuccioli indifesi a questa ancestrale violenza. La rivendicazione di un diritto alla geometria sempre variabile della storia degli affetti produce il mostro della loro stessa distruzione quotidiana. La violenza s’annida nel gesto stesso di un amore senza stabile dimora. Chiedere ai nostri cuccioli di apprendere l’arte degli affetti in questo turbinio dei legami che danno loro corpo è impresa a dir poco titanica. E rimango sempre sorpreso dalla tenerezza dei nostri ragazzi che, davanti alla miseria affettiva che mettiamo in scena al loro cospetto, continuano ad aspirare alla bellezza di un amore che non si consuma. Residuo incantato di una differenza dell’umano edificata attraverso millenarie traversie. Aspirazione in cui scintilla l’ultimo barlume della distanza fra la fisiologia biologica dell’apparto e il desiderio dell’animo umano.

Davanti all’ennesimo femminicidio, Michela Marzano ha proposto di investire la scuola del compito di un’educazione agli affetti delle generazioni più giovani. Confesso qualche perplessità in merito. Da un lato perché stiamo chiedendo sempre più alla scuola di assumere la funzione vicaria della società civile, come se essa d’incanto potesse ciò che la socialità umana non sembra più essere capace di fare. Chiedere alla scuola di essere e fare tutto mi sembra semplicemente sproporzionato. Sintomo preoccupante del fatto che non abbiamo più alcun luogo capace di un’edificazione dell’umano degno di se stesso. Perché tutti gli altri luoghi li abbiamo sbriciolati con la compiacenza di una rivendicazione individualista dei diritti. Una qualche riflessione in merito sarebbe non solo doverosa, ma anche onesta. Ma poi anche perché l’educazione all’arte degli affetti non è questione di istruzione, né può essere imposta per legge. Essa si rende possibile solo in un luogo che precede ogni istituzione, un luogo a cui le istituzioni non possono dare forma e che dovrebbero proteggere come un bene che riguarda tutti. Un luogo che ogni essere umano porta con sé: quello della generazione (alla vita, alle relazioni, alla vicenda di esistere) e della sua affidabilità. La disinvoltura con cui manipoliamo a nostro piacimento il bene comune dell’affidabilità della generazione brucia il terreno sotto i piedi dei nostri cuccioli su cui essi possono essere introdotti alla forza e bellezza degli affetti dell’umano. Difficile poi edificare la storia del legame affettivo sul nulla a cui li esponiamo quotidianamente. Ma difficile anche giustificare il nostro sdegno per una violenza che non dovrebbe essere, e che invece ha molte ragioni che noi stessi le abbiamo concesso.

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