Mentre rivisitavo uno degli scaffali, in cui i miei libri giacciono polverosi e disordinati, ho ritrovato Etica come filosofia prima di Emmanuel Levinas e Adriaan Peperzak (Guerini e Associati, Milano, 1989). Il libro nascondeva una sorpresa, probabilmente dal 1991, anno in cui ho iniziato a leggere Levinas: due pagine scritte da me, ispirate dalla lettura del filosofo. Avevo dimenticato queste riflessioni datate: la chiarezza del testo mi ha sorpreso, come se, trent’anni fa, fosse stato scritto da qualcun altro.
Oggi, forse, posso capire meglio perché Levinas mi affascinava: è il meno greco, il meno indoeuropeo dei filosofi e il più semitico degli stessi, per aver proposto biblicamente – e da ebreo conservativo! – un approccio teologico e antropologico, che dimentica l’Essere parmenideo-platonico e tutta la tradizione occidentale dipendente dall’analitica aristotelica.
Ci confrontiamo non solo con il superamento della fenomenologia, ma, a partire dal paradigma dell’alterità – che rimette all’Altro con l’A maiuscola – una rifondazione della filosofia, che scommette su un’altra ontologia, lasciandoci sperare che si possa ancora pensare, discernere e orientare la vita, dopo la crisi mortale della metafisica greca e – in ambito cattolico – dopo la sempre più palese irrilevanza della filosofia neoscolastica e delle teologie sposate sull’Essere.
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Ecco, di seguito, il mio impeto del 1991.
È vietato rispondere apologeticamente alla constatazione di Nietzsche sulla morte di dio e reagire ai vari funerali della metafisica classica celebrati lungo la storia della filosofia europea. Ciò che è permesso davanti al cielo vuoto, svuotato da noi stessi, e davanti al cadavere del dio-essere dei teologi assassinato da noi stessi, è accettare queste premesse apofatiche e rifugiarci all’ombra della Croce di Gesù Messia.
È rendersi conto che è solo lasciandoci guidare dal Vangelo del Regno che possiamo opporci al dominio della nuova trinità: tecnologia, capitale, politica. Perché il Mistero è irraggiungibile: le parole, i discorsi non lo rivelano e, al contrario, lo nascondono.
Come cattolici potremmo appellarci all’analogia entis, ma forse a maior similitudo in maxima dissimilitudine è un alibi illusorio, un gioco di parole, o, come diceva Karl Barth, “colpevole arroganza religiosa”.
Quindi sembra che l’unica alternativa valida possa essere il silenzio. Stai zitto, non profanare il Mistero! Tuttavia, per me, che oso vedermi discepolo di Gesù di Nazaret, Egli è la Parola definitiva, corporea, sul Mistero.
Gesù, in costante relazione con Lui, lo chiama papà, ma non toglie il velo che lo nasconde; non lo rivela. Sì, quando vedi Gesù, vedi Abbà. Insomma, ciò che ha rivelato non è l’indefinibile volto del Padre. Ciò che ci è lasciato in eredità è il cammino per incontrarlo nelle vicissitudini imprevedibili, incomprensibili, incoerenti e violente della nostra storia personale e collettiva.
Ciò che Gesù rivela è la misteriosa presenza del suo Regno nel tessuto del cosmo e del tempo. Ci è data un’unica possibilità di sconfiggere l’imprevedibile violenza della natura e la logica dell’ingiustizia e dell’odio che governano il mondo: la Gloria del Crocifisso, agape infinita e incontaminata, per proteggere e promuovere la vita di tutti i viventi. Agape che si sottrae alle parole, dalle spiegazioni, alle interpretazioni, alle dialettiche, dalle razionalità, per trovare rifugio in un’unica Parola vittoriosa: il Crocifisso Risorto.
In conclusione, è necessario ricordare che Gesù non è semplicemente il rabbi di un’etica radicale; radicale, senza dubbio, è l’etica come ontologia del fratello ebreo Levinas. Perché Gesù non è solo la Via, il metodo, ma Egli, nonostante la nostra confusa visione “come in uno specchio” appannato (1Cor 13,12) è anche presenza e amorevole compagnia.