Al passaggio tra il 1900 e il 2000, una ventina d’anni fa, Italo Calvino notava che il millennio trascorso «è stato il millennio del libro, in quanto ha visto l’oggetto-libro prendere la forma che ci è familiare. Forse il segno che il millennio sta per chiudersi è la frequenza con cui ci si interroga sulla sorte della letteratura e del libro nell’era tecnologica, cosiddetta postindustriale (…). La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare coi suoi mezzi specifici» (Lezioni americane. Sei proposte per il prossimo millennio, Mondadori, Milano 2002,4)
Quanto Italo Calvino dice del «millennio del libro» vale anche per il libro di teologia: tutti noi abbiamo vissuto il libro come strumento privilegiato di sapere, come luogo naturale ove cercare e praticare teologia. La connessione libro-teologia è talmente pacifica che, tra le condizioni stabilite dalla competente autorità della Santa Sede per riconoscere una facoltà teologica, c’è quella della presenza di una biblioteca funzionante.
La biblioteca è una componente fondamentale di una università, un dato essenziale, allo stesso modo del corpo qualificato di docenti e del sufficiente bacino di utenza. Si potrebbe pure ricordare che la struttura tipica dei monasteri dell’epoca d’oro era organizzata attorno a due ambienti simmetricamente disposti: la chiesa e la biblioteca.
L’immagine grandiosa dell’abbazia di Maria Laach, culla della rinascita liturgica in Germania nel secolo scorso, con i due blocchi simmetrici, strutturanti la vita e lo spazio monacale. E bibliotheke farmakon thes psukés: la biblioteca è farmaco dell’anima, ho trovato scritto in greco sul portale solenne di un’antica biblioteca.
Più che sui princìpi, allora, è opportuno fissare l’attenzione sugli interlocutori che il binomio libro-teologia chiama in causa. Che sono fondamentalmente tre: l’autore, l’editore e il lettore. Tra editore e lettore va inserita la figura del libraio, ridotta nel comune sentire a puro luogo di fornitura dell’oggetto libro, e in realtà punto determinante (oggi particolarmente critico) nella diffusione di questo strumento del sapere. Ed è un problema che mette sul tappeto troppi e gravi aspetti tecnici ed economici per trattarne in questa sede.
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L’editore è il soggetto attraverso cui l’autore raggiunge il lettore, producendo il luogo dell’incontro che si chiama libro. È, in certo senso, un parallelo della scuola-università, che rende possibile l’incontro tra professore e studente. Per comprendere dall’interno il ruolo dell’editoria teologica in Italia procediamo per gradi.
La dislocazione della teologia dal centro al corpo ecclesiale
Fino al concilio Vaticano II e agli anni ’70, le facoltà di teologia in Italia erano concentrate a Roma nelle università pontificie; la diffusione della teologia avveniva per ricaduta nei seminari, finalizzati direttamente alla formazione del clero. L’editoria teologica assumeva la fisionomia dei manuali di testo, con un circuito di diffusione specifico e limitato. I libri liturgici e devozionali erano pubblicati dagli «editori pontifici», che operavano in regime di ufficiosità; testi di teologia o di riflessione sul cristianesimo venivano pubblicati in Italia da pochi editori, tra i quali si possono ricordare Vita e Pensiero, Morcelliana, SEI, Paoline.
Il concilio Vaticano II, con i dibattiti interni e con i documenti pubblicati ha rappresentato:
1) una riforma vera del pensiero teologico e del modo di proporsi della chiesa: ha modificato la teologia in tutti i suoi settori (dogma, morale, liturgia, diritto, interlocuzione con le società e le culture…);
2) è stato un luogo di elaborazione teologica e costituisce un ripensamento radicale e strutturale della liturgia e dei riti, fino a mettere in causa i testi, la lingua e il luogo del rito. La riforma liturgica, alla quale queste parole rimandano, è solo uno dei grandi temi del Vaticano II, ma è quello che tocca più direttamente il tema del libro, ed è quello che più direttamente ha modificato il modo visibile e pubblico di porsi della chiesa con i suoi riti.
Mi soffermo solo su due punti: il luogo della celebrazione (l’edificio chiesa nella sua articolazione), i testi della celebrazione (dal messale che contiene tutto alla piccola biblioteca costituita da messali, da lezionari, da rituali per ogni circostanza. Non a caso questi vocaboli sono al plurale).
La riscoperta e l’obbligatorietà per il credente della doppia mensa (il pane e la parola) ha imposto alle comunità un nuovo modo di concepire la chiesa-edificio e il rito-Presenza. Nell’edificio, due diventano i poli di riferimento: l’ambone e l’altare; nella celebrazione la Parola diventa Sacramento. Se la Parola letta e proclamata è al centro del rito, viene chiamato il causa il libro. E il libro per eccellenza è la Bibbia.
Dal punto di vista editoriale, prima del Vaticano II ogni parroco doveva avere 4 libri: il messale, il breviario, il rituale e (forse) il codice di diritto canonico. La riforma del rito della messa e dei sacramenti, che mette al centro la Parola, impone i messali, i lezionari, i rituali al plurale, e anche i codici, che diventano due, quello per la Chiesa latina e il Codice dei canoni delle chiese orientali: una biblioteca vera e propria, come sanno i parroci e chi partecipa seriamente alla liturgia.
E naturalmente messali, lezionari, rituali e codici vanno compresi per essere applicati. Con il Vaticano II e la fucina di idee che esso rappresentò nasce in Italia l’epoca delle traduzioni teologiche.
I giovani professori sfornati dalle università pontificie si fanno traduttori e divulgatori delle idee dibattute in concilio, fanno conoscere in Italia gli orientamenti novatori espressi nelle università francofone, fiamminghe e tedesche; attecchisce subito l’ecumenismo e si leggono con sorpresa i primi teologi del terzo mondo.
Le case editrici sono protagoniste in quest’opera di divulgazione e di esplosione dell’interesse teologico: è la «stagione delle traduzioni», soprattutto dal francese e dal tedesco. (Ragione del mio scegliere il tedesco come seconda lingua straniera invece dell’inglese… e quanto mi è servito in oltre quarant’anni di Fiera del libro di Francoforte).
Gli effetti di questa stagione sono molteplici.
L’applicazione pastorale del Vaticano II in Italia
In poco più di un decennio, tra il 1962 e il 1975 il panorama teologico italiano cambia sostanzialmente per effetto del prodotto libro. È indubbio che attraverso l’editoria cattolica la Chiesa italiana ha conosciuto e assimilato la teologia dalla quale sono nati i testi del Vaticano II. Subito a ridosso de concilio, la teologia italiana passa dalla «stagione delle traduzioni» alla stagione della «competenza acquisita»; per merito della seminagione nelle università pontificie, per i numeri e le capacità del personale ecclesiastico, e per l’imprenditorialità dell’editoria cattolica.
Dalla produzione autonoma propria trae giovamento la Chiesa locale. Dire teologia significa dire una Chiesa che pensa. Le case editrici sono state palestra e punto di riferimento nel dare visibilità al pensiero teologico nel nostro paese.
Gli effetti di questa «competenza acquisita» emergono con forza nei decenni del postconcilio: la nostra Chiesa ha progettato il rinnovamento della catechesi (non si sottovàluti un’impresa come quella di scrivere tutti i catechismi per fasce di età); ha lanciato piani pastorali sempre più consapevoli del dato conciliare e delle trasformazioni socio/culturali in atto; ha prodotto i testi liturgici largamente arricchiti rispetto alle altre edizioni. Catechesi, rinnovamento della pastorale, liturgia, pastorale biblica: sono quattro settori in cui si è espressa in modo significativo la vitalità della Chiesa italiana.
Una vitalità di cui l’editoria è, in larga parte, causa. Andando appena a sessant’anni fa, quando in Italia la teologia era tutta e soltanto nelle università pontificie a Roma, si può misurare sulla distanza quale ruolo positivo per tutte le articolazioni della Chiesa italiana ha svolto l’editoria cattolica, e il personale religioso e laico che vi ha operato e vi opera.
All’inizio l’editoria
In diverse circostanze pubbliche, anche come presidente dell’Unione Editori e Librai Cattolici Italiani (UELCI), ho avuto occasione di sottolineare che la forte presenza dell’editoria religiosa è uno dei tratti tipici del cattolicesimo italiano. L’UELCI è giunta a raggruppare 55 editori e un centinaio di librerie (tra queste quattro catene: Paoline, San Paolo, LDC, Àncora). Per comprendere il fenomeno editoriale cattolico nel nostro paese vanno sottolineate alcune caratteristiche specifiche:
- in questo corposo fenomeno, un fatto di rilievo è costituito dalla presenza degli istituti religiosi: 13 su 55 editrici sono emanazione di una congregazione religiosa e tra queste 13 ci sono alcune delle più importanti editrici cattoliche, come ad es. San Paolo, LDC, SEI, Il Messaggero, Dehoniane, Paoline, Àncora, Queriniana… Ciò significa che una consistente fetta di personale ecclesiastico è impegnata nell’attività culturale e che l’editoria cattolica si presenta sia come fatto di produzione culturale sia come forma di apostolato.
- È un’attività che viene da lontano, così da segnare la storia del mondo cattolico negli ultimi cent’anni. Il radicamento nel tempo è testimoniato dagli stessi nomi di alcuni editori; si pensi a Libreria Dottrina Cristiana (LDC con il termine dottrina); all’editrice Studium (nasce nel 1927 a opera di G.B. Montini e I. Righetti, e il nome latino le deriva dai Laureati Cattolici); l’editrice La Scuola viene fondata nel 1904; la SEI inizia l’attività con altro nome nel 1908; Cantagalli è stata fondata nel 1923; l’Àncora è costituita nel 1934; la Elledici opera dal 1941; Città Nuova inizia le pubblicazione nel 1959.
- La stagione del concilio e del postconcilio rappresenta un momento di entusiasmo nelle idee e nelle iniziative. L’effetto di questa stagione sull’editoria è quello
- della morte di alcuni editori: finisce, in Italia come all’estero, l’epoca degli «editori pontifici» (Daverio, l’esclusiva di Marietti, Desclée, Pustet…), chiudono editori gloriosi di musica sacra (sono cambiati i riti e la loro lingua).
- di trasformazioni profonde: alcuni editori da protagonisti della produzione religiosa e teologica diventano comprimari (Vita e Pensiero, Morcelliana), altri passano dalla prevalente attività tipografica a una connotazione più spiccatamente editoriale (Àncora), altri ancora sono spinti a riorganizzazioni interne (Paoline e San Paolo), alcuni, come l’AVE, passano da editori di associazione a editori di forte presenza in libreria;
- nascita o rinascita di nuove editrici: Gribaudi, Borla, Dehoniane Napoli poi Roma, Dehoniane Bologna, Massimo, Jaca Book e la riqualificazione di Queriniana.
- alcune di queste editrici sono espressione dei nuovi movimenti ecclesiali e di spiritualità o di associazioni ecclesiali: Città Nuova, AVE, agli inizi Jaca Book e altre minori.
- A questo punto è d’obbligo citare in positivo l’editrice Il Mulino per la sua «Collana di Studi Religiosi», che si apre con due testi classici: J. Barr, Semantica del linguaggio biblico e K. Barth, Dogmatica ecclesiale (1969). È una testimonianza di come il fenomeno religioso può essere considerato oltre le chiese e il cristianesimo, perché il senso religioso costituisce una componente non cancellabile dell’umano ed è cultura. E allora, accanto a Il Mulino, è d’obbligo citare oggi tra gli editori seri di cultura religiosa anche Carocci e Rubbettino. Appunto per sottolineare questo allargamento alla cultura laica è programmato l’intervento della professoressa Francesca Cocchini, emerita di storia del cristianesimo all’università La Sapienza di Roma.
Assieme agli editori le associazioni teologiche
Prima del Vaticano II l’unica associazione teologica italiana a dimensione nazionale era l’Associazione Biblica Italiana (ABI). La sua rivista scientifica, Rivista Biblica, ha ora 70 anni di pubblicazione e ad essa si sono poi aggiunte Ricerche storico-bibliche, pure a livello scientifico, e Parole di Vita a livello divulgativo.
L’ABI ha pubblicato presso le EDB un grosso volume (676.000 caratteri) dal titolo Un secolo di studi biblici in Italia. Biblisti italiani del Novecento, a cura di R. Fabris e scritto da un gruppo di biblisti. Il volume presenta una settantina di ritratti di studiosi italiani della Bibbia, defunti, che con i loro scritti e la loro attività hanno animato dall’interno la cultura e il sentire della Chiesa italiana. Va ricordato che, accanto alle riviste, l’ABI cura una collana di approfondimento scientifico, giunta a una settantina di volumi.
Dopo il Vaticano II, il fermento di ricerca proprio di quella stagione ha portato al costituirsi di diverse associazioni teologiche. L’Associazione teologica italiana per lo Studio della Morale (ATISM, 1966), l’Associazione Teologica Italiana (ATI), l’Associazione italiana dei professori di storia della Chiesa (1967), l’Associazione professori e cultori di liturgia (APL, 1972), l’Associazione degli studiosi di diritto canonico, l’Associazione dei catecheti (AICA), la Società italiana per la ricerca teologica (SIRT 1989), l’Associazione Mariologica Interdisciplinare Italiana (AMI 1991), il Coordinamento delle Teologhe Italiane (CTI 2003).
Una varietà e ricchezza che ha sentito la necessità di darsi un coordinamento, se non altro per conoscersi, il Coordinamento Associazioni Teologiche Italiane (CATI). Ognuna di queste associazioni organizza convegni professionali di studio, diverse hanno un periodico scientifico ufficiale o curano collane in proprio, presso editori o centro di studi.
Vale la pena indicare tre risultati diretti di queste associazioni. 1) Al loro interno o su loro iniziativa sono nati Manuali di studio per i vari comparti della teologia. Cioè hanno contribuito in modo diretto alla crescita della teologia nel clero e negli operatori della pastorale. 2) Dagli iscritti più attivi delle associazioni hanno attinto i vescovi locali e la dirigenza della CEI per l’animazione di programmi pastorali e realizzazioni storiche della chiesa nel nostro paese.
Basti ricordare la traduzione in italiano della Bibbia (1971, 2008), la stesura dei catechismi nazionali per fasce di età (non si sottovaluti un’operazione di questo tipo, perché implica competenze e cultura non ordinarie), l’edizione italiana dei libri liturgici (messale ampliato nelle orazioni domenicali, nelle preghiere eucaristiche, con il messale/lezionario della Madonna – nei miei soggiorni in Spagna o Germania ho verificato che nei libri liturgici di quelle chiese non ci sono simili dilatazioni), i vari programmi decennali di pastorale che hanno caratterizzato la vita della CEI negli ultimi cinquant’anni.
Una teologia italiana
Prima del concilio la teologia in Italia era rappresentata dalle università pontificie di Roma. Con la trasformazione del postconcilio, nascono nuovi soggetti del fare teologia: gli editori e le associazioni teologiche vanno messi in primo piano. Si passa dall’importazione alla produzione in proprio. Dopo la fase delle traduzioni (occorreva svecchiare la teologia curiale e italiana…), i traduttori diventano autori capaci di dare panni italiani alla teologia, alla catechesi, alla liturgia e alla pastorale.
Senza la forte presenza organizzata dell’editoria religiosa e di ciò che essa ha prodotto per crescita dell’intero popolo di Dio, la chiesa italiana sarebbe più povera di pensiero e di interiorità, più povera di formazione e più povera nella pastorale.
C’è una caratteristica della teologia italiana? Sì e del tutto positiva: il suo riferimento costante alla pastorale. Cioè, è funzionale alla crescita del popolo di Dio.
Un aspetto che la differenzia in modo significativo dalla situazione francese, che si è esercitata sull’alternativa «teologia en église o teologia en Sorbonne» e da quella tedesca, che ha vissuto la sua presenza istituzionale nell’università di stato dapprima come una fortuna, ma poi ne è rimasta soffocata per l’indebolirsi del riferimento alla pastorale.
Gli editori sono stati determinanti nel valorizzare il crescere della teologia in Italia, perché
- hanno favorito il trasformarsi dei nostri teologi da «traduttori» in «autori».
- hanno reso possibile la pubblicazione dei periodici delle facoltà e delle collane delle associazioni.
- hanno fatto opera di committenza a singoli autori, organizzando con loro filoni di ricerca e itinerari culturali.
Cioè gli editori hanno rappresentato un soggetto pensante almeno quanto le facoltà teologiche.
Il lettore o l’utente
Il lettore è il terzo soggetto chiamato in causa dal binomio teologia-libro. Da quanto ho detto finora è evidente che i due primi soggetti trovano possibilità di vita e legittimazione soltanto in forza di un terzo ospite: il lettore. Anche qui vale il detto «o si reggono assieme o assieme cadono». Il lettore del libro di teologia si chiama «corpo vivente della chiesa». «Vivens homo», l’uomo vivente è il titolo della rivista della Facoltà Teologica di Firenze e dell’Italia Centrale.
Gli editori di teologia e di religione in Italia hanno possibilità di vita soprattutto per il fatto che la nostra Chiesa è ancora una realtà viva e innervata nella società. Il bacino di utenza dell’editore di teologia è costituito soprattutto dal pubblico che gravita attorno alla Chiesa (parrocchie, movimenti, istituzioni religiose…). Senza questa sottolineatura di attualità ecclesiale, non si capisce lo sviluppo conosciuto dall’editoria religiosa negli ultimi cinquant’anni e non si capisce perché in Italia la maggior parte dell’editoria religiosa sia gestita congregazioni religiose o da enti ecclesiastici.
L’interrogativo più grande per questa situazione è dato dalla progressiva e radicale secolarizzazione che avanza con le nuove generazioni. Per quanto tempo ancora la «società del campanile», che trova nella struttura ecclesiale un riferimento quasi naturale, reggerà di fronte al cambiamento di senso indotto dalla cultura del consumo, dell’immediato, del soggettivo e dell’apparire? Gli indicatori che vengono da società come i Paesi Bassi, la Francia e la Germania sono tutt’altro che a favore della continuità. E questo è il tema che più di ogni altro merita approfondimento.
«La rivoluzione del Concilio Vaticano II e il fiorire dell’editoria cattolica» è il titolo che gli organizzatori hanno dato a questo incontro. È realismo riflettere che dopo la fioritura vengono altre stagioni, nelle quali ahimè siamo già entrati.
Nell’ottava specializzazione funzionale de “Il Metodo in Teologia” di Bernard Lonergan si legge che senza la Comunicazione (appunto l’ottava) il lavoro pur sublime delle altre sette specializzazioni serve a poco, al limite a nulla. Questa certezza interroga la Teologia accademica a non vanificare le proprie fatiche e impegnarsi di più e più decisamente in una attività di “divulgazione” che davvero mostri il suo indirizzo pastorale. La Teologia non si elabora e non si deve studiare “per fare qualcosa” (Il prete, l’insegnante di Religione) o per abilitarsi a occupare una posizione nell’istituzione (tutte cose doverose che possano sperabilmente accadere… come un posto di lavoro in Germania con il Pastoral referent). L’elaborazione teologica va riportata al suo nucleo incandescente, cioè la maturazione di una fede adulta nel popolo santo di Dio.
La riforma doverosa che ha portato, attraverso il Processo di Bologna, a “rigorizzare la formazione teologica accademica per ISSR ” per il riconoscimento dei titoli dallo Stato italiano, ha avuto anche come contraccolpo la chiusura degli ISR e delle scuole di teologia di base, impegnate all’acculturazione teologica del popolo di Dio, con una teologia “popolare” sufficientemente “critica” per restare teologia (e non gazzosino devozionistico) e però adeguatamente divulgativa per costituire uno strumento non solo di acculturazione della dottrina, ma soprattutto di stimolo a “pensare la fede”, quale elemento costitutivo per vivere la fede in modo adulto. Ai tempi del “Progetto culturale” si citava un passaggio dei vescovi italiani che invitavano ad una ” fede adulta anche perché pensata”, nella linea agostiniana di fides nisi cogitatur nulla est (la fede che non si pensa è nulla). La schizzofrenica separazione tra teoria e prassi, tra ideale e reale, tra soggetto e oggetto etc etc (non so se solo “moderna”, ai posteri l’ardua sentenza, perché per me ha le sue radici nell’introduzione massiccia dell’aristotelismo in teologia per l’esigenza della teologia di autocostituirsi come scienza) ha portato a concepire la fede e il vissuto della fede senza ricerca (anche intellettuale) e ha comportato la concezione della Teologia in senso “tecnico strumentale” (scolastico) come un lusso per pochi. Se il popolo di Dio non è teologicamente preparato al “teologare” (piuttosto che alla Teologia, absit iniuria verbis) non ha nemmeno senso che l’Editoria sforni libri meno tecnici e più bignamizzati. Il problema è infatti riferito all’ineducazione del lettore, che non ha nessun interesse di leggere per crescere nella fede, anche perché il credere viene progressivamente e ateologicamente ridotto e ricondotto alle forme religiose dell’appartenenza ecclesiastica ( su cui la pastorale è concentrata) e non alla conoscenza critica del Dio di Gesù Cristo: e, infatti, il cattolico medio va avanti a credere inconsapevolmente e acriticamente-dopo duemila anni di cristianesimo- che Dio può colpirlo con dolori (malattie anche mortali) perché ha peccato o è cattivo, mentre il cattolico doc (quello che la Teologia ritiene di averla studiata) crede la stessa cosa nonostante la sua acculturazione teologica e magari affibbia dell’eretico al Papa se la sua dottrina del Dio misericordioso non coincide con il linguaggio della dottrina del Dio “giustiziere” fatto passare per il Dio giusto.
Ringrazio Padre Alfio Filippi per la sua analisi e anche per il suo ottimismo. Credo anche io che l’Editoria cattolica può aiutare il processo di divulgazione teologica a servizio dell”evangelizzione del popolo di Dio. Per il resto sono convinto che le Congregazioni religiose con case editrici avessero all’origine in mente la mission di contribuire all”evangelizzazione. E però quella originaria mission è rimasta sempre la priorità oppure cammin facendo è stata asservita ad altri scopi?
La competitività del mercato crea del resto mostri dappertutto (e poi li divora). Approfitto dell’occasione per ringraziare padre Alfio Filippi per avermi coinvolto nella pubblicazione del Trattato di Trinità nel Corso di Teologia sistematica. Per me, giovanissimo teologo, fu di grande incoraggiamento.
+ Antonio Staglianò
Concordo, condivido e sottoscrivo quanto afferma il prof. Lorizio. Visione un po’ (tanto) di parte. Anche perché se una casa editrice – non faccio nomi – per guadagnare deve pubblicare testi sulle apparizioni della Madonna o sul diavolo o su tutto ciò che ha qualcosa di carattere soprannaturale… mi pare ovvio e scontato chiedersi: che n’è della VERA teologia??? Basta entrare in una libreria cattolica e vedere quali sono i libri in vetrina per capire che la teologia, quella studiata, quella praticata nella aule universitarie non è in mostra, anzi molto spesso si trova in un angolino con testi che sono quasi fuori commercio. Per non parlare di quante case editrice cercano di investire su nuovi autori. Basta vedere un catalogo per scoprire che pubblicano sempre gli stessi, molto spesso scrittori molto social e poco teologici – anche qui non faccio nomi -, scrittori che sono tele-igienici (che finiscono in trasmissioni televisive della RAI). Insomma mi pare che l’autore parli di editoria senza andare nei contenuti. Tanto più che un libro comprato non è detto che sia un libro letto/studiato.
Interessante e preziosa valutazione della storia dell’editoria cattolica, analizzata nelle sue cause e nei suoi effetti!
La prima suggestione è quella sullo squilibrio e sul disorientamento dovuto a questo cambio di paradigma di cui, probabilmente, siamo ancora vittime e del quale continueremo ad essere soggetti: si stampa e si pubblica (più o meno gratuitamente) quel che si vende/quel che si usa, il che sembra essere una contraddictio in terminis per una scienza nobile (nel senso aristotelico del termine) quale Teologia.
Il secondo rilievo – con il quale personalmente convivo da qualche anno – è proprio il risvolto economico sottolineato anche dal prof. Lorizio nel suo illuminante commento. Ma, a parte l’indignazione che monta osservando che il guadagno editoriale giovi in larga parte a chi il testo non l’abbia scritto né – forse – ben impaginato o distribuito, resta l’interrogativo su quanto sia cogente una valutazione puntuale e attendibile della temperie teologica sulla base delle stesse pubblicazioni teologiche, dato che le case editrici (teologiche e non) stampano solo quel ben si vende, scilcet quella declinazione di sensus fidei che esse stesse hanno a cuore di alimentare e sostenere.
In merito a questo secondo punto penso che il decadimento delle case editrici “ufficiali” (tanto triste quanto vero il riferimento alle storiche edizioni musicali!) abbia definitivamente avallato l’asservimento della cultura teologica (e spesso anche liturgica) al contesto culturale secolarizzato: con ben poco spirito pastorale, piuttosto addivenendo ad esser da esso pasciuti.
Infine un interrogativo: in uno dei suoi tanti interventi a tutela della neonata riforma liturgica (chiedo venia per l’incapacità contestuale di citare nel dettaglio il discorso preso a riferimento), san Paolo VI ribadiva l’assoluta necessità di non discostarsi appunto dalla lettura -che nel rito si fa proclamazione- né di abbandonare la forma testuale quale fondamentale trasmissione della divina rivelazione che, in tale forma privilegiata, continua a raggiungere la Chiesa. Tuttavia, ormai, abbiamo quasi trapassato l’epoca del digitale e ci apprestiamo ad entrare in quella dell’iper-preconizzato metaverso: la lettura in sé (sia essa teologica, liturgica, informativa o ludica) e, di riflesso, il mercato librario quale futuro potranno avere, anche a fronte dei tanti disturbi dell’attenzione, di dislessia e affini, che stanno falcidiando le nostre nuove generazioni?
Molto apprezzabile il contenuto dell’articolo che descrive e sintetizza una stagione passata che non esiste più. Scrivo libri per ragioni accademiche (avendo insegnato teologia) o per motivi personali da oltre vent’anni e tutto quello che viene detto nell’articolo io non l’ho mai riscontrato; è almeno dunque da vent’anni che le cose non stanno più così e che il quadro dell’editoria è profondamente cambiato. La ricchezza si è fatta frammentazione, le forze si sono drammaticamente ridimensionate, il pubblico dei lettori sopravvive spesso solo rispetto ad opere divulgative ed efficaci in slogan o analisi sociologicamente scopiazzate ma prive spesso di profondità di pensiero e speculativa; voglio solo puntualizzare che essere speculativi non vuol dire essere rinchiusi nelle aule accademiche ma riuscire a leggere e a interpretare la realtà con strumenti adeguati e non approssimati ed approssimativi che non riescono mai ad andare alla ragione dei fenomeni perché mancano di solidità speculativa cioè di vero esercizio di pensiero. Ormai l’editoria è una questione di costi e di bilanci di aziende che giustamente devono campare e sopravvivere e non possono fare investimenti a fondo perduto. L’editoria religiosa in Italia pubblica di tutto di più, basta pagare. Tranne i casi in cui sono gli editori a commissionare volumi agli autori (ma quanti sono questi casi? Una piccolissima fetta dei titoli) il resto è una profluvie di libri che vengono stampati purché l’autore copra tutte le spese di produzione e stampa in maniera tale che l’editore è coperto da ogni rischio e se vende anche poche copie quello è tutto guadagno. Discorso un po’ diverso per i titoli adottati a livello accademico anche se con i numeri sempre più rarefatti anche in questo caso moltissimi editori chiedono che entro due-tre anni si venda un certo numero di copie non raggiunto il quale l’autore deve comprarsi le copie mancanti. In questo modo però si penalizzano in particolare i giovani impegnati nella ricerca che non dispongono di mezzi adeguati per finanziarsi la pubblicazione spesso onerosissima dei propri valevoli dottorati. Ci sono case editrici che arrivano a chiedere 9000 euro e danno all’autore al massimo 50 copie. Per non parlare del fatto che nelle istituzioni accademiche i fondi per promuovere l’editoria di alto profilo, le pubblicazioni di spessore sono quasi inesistenti e a parte il budget per le riviste nessuno pensa che valga la pena investire nelle pubblicazioni. Molto si potrebbe dire sull’estrema frammentazione dell’editoria religiosa che ha determinato vicende tristi, dalla chiusura di Borla alle EDB sull’orlo del fallimento, alla crisi di Città Nuova e che soprattutto dati i costi fa’ sì che i libri abbiano dei prezzi di copertina spesso impossibili per studenti o lettori che per volumi di 200pp si trovano a dover pagare magari 35-40 euro. Faccio un esempio. Quando comprai in inglese la monumentale opera di Brown La morte del messia spesi per due corposissimi volumi 60 dollari. In italiano 120 euro, quando l’euro valeva 1,20 dollari. Capisco i costi di traduzione e tutto il resto ma è un divario enorme… è impensabile riprodurre qui quello che fa Brill o Routledge o De Gruyter. E infine l’autore, colui senza il quale non esisterebbe il libro ma che a scrivere solo ci rimette perché deve sostenere i costi della pubblicazione aspettando improbabili diritti che se non li solleciti nemmeno te li mandano (nei casi in cui il contratto li prevede) … le questioni sono tante, io ne ho indicate alcune per reagire a quanto scritto. La realtà è ben diversa oggi da ciò che è stato in passato
Padre Alfio ha profuso la sua intera vita religiosa e sacerdotale nell’ambito dell’editoria (EDB), mettendo al centro delle sue scelte editoriali la Bibbia e la catechesi, in linea con il rinnovamento proposto dal Vaticano II. Comprendo dunque la sua visione positiva e propulsiva.
Poi occorre fare un bilancio critico sull’editoria cattolica italiana. Mi sembra che molte collane delle nostre benemerite edizioni cattoliche si sono legate al genere manualistico (il trattato teologico). I saggi scientifici (ricerca) ovviamente sono presenti ma in misura molto inferiore. Lorizio ha spigato bene la questione dei costi, delle scelte legate alla “vendibilità” o meno del prodotto.
Un’ultima annotazione. Spesso si dice che la teologia italiana ha preferito un radicamento ecclesiale e pastorale. Questa affermazione è senz’altro giusta. Ma mi chiedo se si è trattato di una “scelta”, o se si sia semplicemente imboccata l’unica possibilità, non avendo avuto altre chance (Università, dibattito culturale extra-ecclesiale, etc.).
Ha ragione il professor Lorizio. Lo dico per esperienza personale. Il libro resta una “questione di nicchia” per chi può permetterselo, fidandosi di “resoconti non attendibili”.
Mi sembra una visione molto ottimistica della realtà attuale
Tanto che i dati mostrano che il libro ‘teologico’ più venduto dell’anno è ‘Codice Ratzinger’, il cui miglior complimento che gli si può fare è ‘ammasso di fanfaluche e ignoranza scritto dal campione nazionale di arrampicata sugli specchi’. Purtroppo tanti cattolici lo hanno preso come il nuovo vangelo, e tutto questo è segno dell’ignoranza teologica che dilaga
Tutto vero quanto scrive Alfio Filippi sull’importanza degli editori per la promozione della teologia. Mi pare però si debba registrare la tendenza a pubblicare testi che possano essere venduti con buon margine di guadagno. Certo, le case editrici sono aziende e non possono lavorare in perdita. Ci si può tuttavia domandare se per sostenere opere di riflessione critica, che gioverebbero maggiormente allo sviluppo della teologia, non si possano programmare opere di divulgazione – va peraltro constatato che il numero dei lettori diminuisce e anche il cosiddetto Processo di Bologna non stimola gli studenti di teologia ad affrontare testi impegnativi – i cui proventi possano tenere i bilanci in ordine. Senza tuttavia esagerare: se si moltiplicano libri facili non si rischia di sollecitare la pigrizia intellettuale?
La visione qui disegnata è decisamente idilliaca e anacronistica. Per la mia esperienza personale (biografia = teologia) se devo essere grato perché non ho dovuto mai pagare qualcosa per pubblicare i miei libri, è anche vero che ho anche lavorato gratuitamente, fidandomi di resoconti non so quanto attendibili, per i diritti d’autore. Questo importa poco, ma ciò che mi interessa è sottolineare due aspetti del problema:
1. I giovani studiosi devono pagare fior di quattrini per pubblicare le loro opere: nessuna casa editrice li incoraggia a meno che non possano assicurare l’adozione dei testi, cosa che avviene quando già sono adulti e inseriti nel sistema accademico.
2. Le case editrici non amano pubblicare (intendo gratuitamente) né tesi dottorali, né miscellanee e, cosa ancor più grave, saggi scientifici. Propendono per testi divulgativi di autori più dediti a suscitare emozioni che riflessioni. e richiedono voci di dizionari o manuali o brevi pamphlet.
La ricerca scientifica non si fa senza risorse, ma non possiamo angariare le giovani generazioni per alimentare un mercato che alla fine garantisce solo gli editori. Nella valutazione di opere da pubblicare la voce prevalente è quella del responsabile commerciale non quella del comitato scientifico di una collana o di una casa editrice.
Spero di essere smentito e saluto cordialmente.
Una miniera di informazioni. Complimenti vivissimi. Francesco Strazzari