L’io e la salvezza

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fine vita

Quando fai un corso all’università con i ragazzi e si finisce, su loro richiesta, a dedicare tre/quattro lezioni al tema del “fine vita”, sai fin dal momento che te lo chiedono che ti stai avventurando su un terreno minato. Non perché abbiano opinioni diverse sulla questione, magari anche contrastanti fra loro, e temi di trovarti a dover orchestrare un minimo di civiltà nella discussione (quella che spesso manca quando se ne parla in contesti pubblici dove, da tutti i lati del contendere, si può osservare una strumentalizzazione mediatica che produce effetti distorsivi a livello puramente emozionale, così da poter evitare di dover articolare un pensiero degno di questo nome).

Tutto questo con i ragazzi non è assolutamente un problema. Non la pensano allo stesso modo, certo, ma si ascoltano con rispetto e partecipazione. Non vogliono imporsi, né banalmente limitarsi a concedere agli altri una visione diversa. Quando li vedi disponibili a entrare nelle ragioni che gli altri espongono, quando percepisci che sono in cerca di un buon pensiero per poter articolare le loro idee, quando li vedi riflettere con serietà sugli snodi antropologici e politici che stanno dietro alla gestione contemporanea del fine vita, allora tocchi con mano il buon segno per il futuro della nostra società e del dibattito pubblico.

Generare spazi di narrazione

Fanno tutto questo con estrema delicatezza, perché intuiscono che ognuno porta con sé la propria storia, non senza quello sfondo di emozione che tiene ben ferma la nostra comune umanità davanti al potere della tecnica e alla normatività del diritto positivo. E vedi che comprendono che né nessuno dei due può esaurire la questione del fine vita come esperienza di uomini e donne che vivono concretamente.

E non c’è argomentazione, che loro cercano di articolare, che non sia, al tempo stesso, una domanda aperta, rivolta in primo luogo a sé stessi. Quando l’umano riesce a mettere in campo queste sue qualità, allora si può parlare e parlarsi non solo civilmente, ma anche fraternamente – proprio quando i ragazzi che hai a lezione magari si conoscono appena, e tu rimani comunque il professore. Vivere momenti come questi, di generazione della fraternità e di un pensiero condiviso (che non vuol dire omogeneo), è semplicemente una grazia. Tu non costruisci nulla, ma devi solo far circolare uno stile del pensare insieme che intesse tra loro i tasselli di fraternità che ciascuno apporta – in uno spazio pubblico e valutativo come è l’università. Se può accadere qui, perché non potrebbe anche altrove?

Una resistenza civile

Vedi che non sono abituati a dire di sé in un’aula universitaria, probabilmente fanno fatica anche in altri contesti. Ma non demordono e colgono l’occasione data, ci mettono il meglio di sé per dare forma a un discorso in cui ne va di loro.

Allo stesso tempo, ti rendi conto come la neutralizzazione in tutti gli spazi pubblici della qualità affettiva delle relazioni interumane non faccia bene a nessuno; e soprattutto non aiuta la nostra società a mettere in atto processi di negoziazione etica, ben prima che legislativa, e a dare forma a spazi di interazione fra le persuasioni che ogni cittadino/a plasma come perno della propria identità morale. Tutte risucchiate nella forza del potere politico che pretende di rappresentarle, senza in verità saperne quasi niente. Oppure svendute ai media che le divorano avidamente e le cavalcano nella misura in cui garantiscono un impatto di drammatizzazione della notizia, per poi lasciare i momentanei protagonisti nella solitudine e nell’anonimità più assoluta.

E, ogni volta che la Chiesa gioca questa carta, diventa anche lei complice del suo meccanismo perverso, strumentale e manipolatore. Tutto solo per creare un effetto che dura non più di un attimo fuggente. Senza vero interesse per le molte domande, che rimangono tali, che continuano a circolare anche nelle persuasioni più profonde dell’umano.

In questi casi, l’università e una manciata di ore di lezione possono diventare l’innesco per una riappropriazione civile e personale di temi in cui ne va dell’umano e della dignità istituzionale dell’essere cittadino/a – e non mero suddito di un potere anonimo, che ha smarrito ogni capacità di rappresentanza. Ribellandosi così alla delega complessiva a cerchi clericali di esperti, che si sostituiscono alla sapienza di uno schietto confronto tra noi, e agli interessi della politica che maneggia gli affetti più cari dell’umano a proprio uso e consumo.

Per un attimo, le ore di lezione diventano il vissuto di una dinamica capace di riattivare le forze di quello che dovrebbe essere una democrazia degna del proprio nome; e anche di una politica che non si risolve nel volersi appropriare di ogni singolarità e tendenza per renderla, poi, soggetta e soggiogata al proprio anonimo e impersonale potere.

I nostri ragazzi non sono politicamente amorfi né indifferenti, al contrario vanno sviluppando un desiderio e una volontà di politica che nessuno riesce ancora ad intercettare. E, se c’è un punto di innesto per reinventarsi una presenza civile del cattolicesimo politico, post-ideologico e non ecclesiasticamente strumentale, è proprio qui che lo si può trovare.

La forza di ribellarsi

Insomma, i nostri giovani sono capaci di mettere in questione i dogmi assunti, prontamente trasformati nell’intoccabile, dalla cultura del nostro tempo. E mostrano di essere molto più sensibili verso i temi in cui ne va dell’umano e della sua destinazione rispetto a quanto l’insostenibile banalità di quello che rimane del dibattito pubblico potrebbe lasciar pensare.

Hanno anche un’abilità politica nello smascherare i paradossi e le incongruenze del linguaggio che circola come nuovo faraone dispotico all’interno della nostra società.

Scoprendo una modulazione del sé che non si produce né in nome della pura autonomia, continuamente evocata come il nuovo Dio dei tempi postmoderni, quando in realtà non è altro che il sogno di un’indipendenza solitaria sciolta da ogni legame vitale, né in nome dei diritti dell’uomo, oramai così inflazionati dal continuo ricorso a essi da essere divenuti una sorta di diritto di proprietà privata da applicare in ogni caso. Sentono benissimo che il soggetto umano non è un io sovrano senza vincoli, impermeabile a tutto e a tutti, ma vive di legami che lo generano, lo sostengono, lo impegnano – anche nel morire.

Legami importanti per l’intera socialità umana, che andrebbero coltivati come un tesoro prezioso e indisponibile alla sovranità assoluta dell’io narcisistico. Tesoro che non può essere scambiato con nessuna tecnica che governa il nostro vivere-insieme, perché essa stessa sussiste solo sulla base di legami effettivi e affettivi fra i molti.

Capaci di guardare la realtà del vivere

Le generazioni più giovani, quelle che trovo e incontro ogni giorno a lezione, sono sicuramente all’altezza di gettare uno sguardo nell’abisso che si spalanca quando il gioco delle relazioni, con sé e gli altri, cade sotto il potere di una volontà intangibile e dispotica, che non desidera più nulla ma è in cerca solo di una gratificazione immediata e insaziabile. Una volontà che si è ridotta a una sorta di pulsione primaria capricciosa e non sa più portare il peso di una contingenza che non si piega al suo dominio e controllo.

Dopo cinque anni che ho l’opportunità di trattare questi temi con i ragazzi in università, vedere come essi si interrogano davanti a un immaginario culturale e civile che ha fatto del dominio delle tecniche della morte il modo (l’unico) di salvarsi dalla vita, a cui non si concede più alcun credito ma solo la sudditanza di dover mostrarsi assolutamente capace di essere esattamente quello che vogliamo che essa sia, è una benedizione ma anche una responsabilità.

Perso l’orizzonte di ogni eventuale trascendenza, l’immanenza assoluta sta lavorando con gaia gioia a smantellare l’intimità dell’umano, appaiata da tutto un apparato legale a suo sostegno (e, forse, conforto) per mettere mano alla propria stessa scomparsa. Ma è proprio a questo che i nostri ragazzi e ragazze desiderano opporre resistenza. Ed è proprio qui che la Chiesa sembra non essere capace di dire una parola all’altezza di raccogliere questo desiderio.

Credo che la gran parte dei miei studenti, con cui da anni mi trovo a pensare insieme su questi aspetti del vivere umano (e del morire), non abbiano mai messo un piede in chiesa; ma non posso non accorgermi che la loro domanda, il loro desiderio, la loro umanità, è così affine a quel Vangelo che un uomo di Galilea mise in circolo, duemila anni fa, nella storia della nostra comune umanità.

Questa affinità, del tutto slegata dalla forma ecclesiastica, è la buona notizia di un Vangelo attualmente in circolazione e movimento tra i nostri giovani.

Sta a noi, come Chiesa, il compito di iniziare a imparare ad ascoltarlo così come lo raccontano loro. Perché solo la loro parola ha la forza di poter autorizzare la nostra.

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