A volte si pensa che il compito di evangelizzare che la Chiesa ha ricevuto dal Signore Gesù consista semplicemente nel raccontare la sua vicenda terrena, quanto egli ha detto e fatto e il senso della sua morte e della sua risurrezione, per invitare poi a credere in lui e ad accogliere il dono della sua salvezza all’interno della comunità ecclesiale. In realtà, se tutto questo rappresenta sicuramente la dimensione centrale dell’evangelizzazione, essa è qualcosa di molto più complesso. L’elemento che obbliga a pensarla in termini più articolati è quello della cultura.
Con questo termine intendiamo il complesso delle conoscenze, delle credenze, dei modi di comportamento, delle convenzioni e delle aspettative di una società umana o di una sua parte. Dunque, esso indica quel patrimonio di valori e di stili di vita con cui una collettività traduce in pratica la propria visione dell’esistenza umana. Ogni persona, volente o nolente, vive dentro ad una cultura, e questa influenza in modo molto rilevante il suo modo di interpretare la realtà, anche di comprendere l’esperienza cristiana.
Per evangelizzare, dunque, occorre entrare in dialogo con la cultura delle persone a cui ci si rivolge, perché in caso contrario il messaggio trasmesso non verrebbe compreso. Si arriva alla fede, infatti, quando l’annuncio del Vangelo risuona come risposta alle domande di senso che, oggi spesso inconsapevolmente, si portano dentro di sé, e in particolare a quel bisogno almeno implicito di salvezza che è presente nel cuore di ogni essere umano. Se però l’annuncio del Vangelo venisse effettuato con categorie culturali completamente distanti dalle proprie, esso risuonerebbe come qualcosa di incomprensibile, di lontano dalla vita, di irrilevante. Dunque, se chi annuncia appartiene ad una cultura diversa da colui a cui si rivolge, deve entrare in dialogo con l’orizzonte culturale del suo interlocutore, per favorire una sua ricomprensione del Vangelo all’interno di questo quadro.
Queste considerazioni non riguardano solamente l’azione evangelizzatrice nei confronti di chi viene da altri paesi, ma anche chi è nato e cresciuto nel nostro territorio. Infatti, anche se può essere discutibile qualificare in termini di diversità culturale le differenze dovute alle varie età o condizioni di vita, resta il fatto che oggi questi fattori determinano differenziazioni tra le persone che sono sempre più profonde. I cambiamenti repentini che caratterizzano il nostro tempo, infatti, tendono a raccogliere gli individui in categorie sempre più distanti le une dalle altre. Ad esempio, per un adulto il mondo degli adolescenti può sembrare così diverso dal proprio da assomigliare ad una cultura differente, e lo stesso potrebbe dire una persona seriamente ammalata nei confronti di coloro che sono ancora in piena salute. Se alcune categorie di persone – ad esempio, gli adolescenti – si stanno allontanando dalle nostre comunità, dovremmo chiederci se siamo realmente consapevoli di dover tradurre l’esperienza cristiana nella loro cultura, che è probabilmente diversa dalla nostra.
Queste considerazioni, tuttavia, non ispirano sempre la prassi pastorale, e non solo per le difficoltà pratiche che pongono, ma anche per ragioni teoriche. Qualcuno, infatti, appellandosi al principio secondo cui il Vangelo è sempre uguale, ritiene che il proprio modo di intenderlo possa e debba essere trasferito così com’è, senza alcun aggiustamento, nella vita delle altre persone, prescindendo completamente dalle loro diversità. Talora, peraltro, questo modo di vedere l’evangelizzazione e l’educazione alla fede è figlio di una concezione molto alta di sé, di una sorta di innamoramento per la propria immagine, e del conseguente bisogno di riprodurre se stessi nelle altre persone anche per quanto concerne i propri tratti spirituali.
Più frequentemente, però, la difficoltà di mettere in pratica le considerazioni sopra esposte deriva dal pensare che tradurre il Vangelo nella cultura o nella mentalità di altre persone significhi necessariamente svilirlo, e che procedendo nella via del dialogo si finisca inevitabilmente per rinunciare alla radicalità evangelica. In effetti, l’inculturazione porta inevitabilmente con sé questi rischi, anche in ragione del fatto che ogni orizzonte culturale porta con se aspetti incompatibili con il vero bene della persona umana e quindi con l’esperienza cristiana. Questo rischio, però, va semplicemente assunto e gestito, ma non può essere una ragione sufficiente per evitare di inculturare il Vangelo, pena l’irrilevanza del suo annuncio.
Anzi, una contrapposizione pregiudiziale e massiva nei confronti di una qualsiasi cultura, anche di quella postmoderna, in quanto ritenuta intrinsecamente incompatibile con l’esperienza cristiana, non può che distruggere alla radice qualsiasi evangelizzazione. Non ci si può più illudere: nessuna persona rinuncerebbe a pensare come un uomo o una donna del proprio tempo per poter aderire alla fede, né accetterebbe di regredire a schemi culturali passati, se non nel quadro di pericolose forme di dipendenza che comunque non possono in alcun modo fondare una sana esperienza spirituale.
Anche se sarà necessario criticare gli aspetti disumanizzanti di una cultura, occorre parimenti mettere da parte quello stile di contrapposizione a tutto campo che in passato ha caratterizzato alcuni stili ecclesiali e che forse non è del tutto tramontato. In realtà, non esistono culture che non siano già abitate dallo Spirito del Signore prima ancora di essere raggiunte dall’annuncio, e che quindi non possano divenire luoghi di una sintesi feconda tra l’umano e il Vangelo.