Difficile a volte cogliere l’origine o il modo in cui si è improvvisamente presentata una nuova voce nella scena interiore. Lentamente la sua forza spirituale si fa strada. Così per me la lettura delle poesie di Margherita Guidacci (Firenze 1921-Roma 1992), appartata presenza poetica del Novecento italiano, valente traduttrice di Emily Dickinson, Eliot, dei “metafisici” barocchi inglesi ma anche di Melville, Rilke e altri ancora.
Rimando chi mi legge alle riflessioni di studiosi e poeti apparse negli Atti di due Convegni di Studio promossi in suo onore e alla curatela della sua opera poetica pubblicata integralmente solo nel 1999.[1]
Partecipo invece il piacere della lettura e “visione” del suo poemetto L’altare di Isenheim, nei brani dedicati al celebre polittico, vera compagnia meditativa durante la scorsa quaresima e il tempo pasquale. Pubblicato nel 1980, fu composto dalla poetessa dopo un soggiorno a Colmar (Francia, Alsazia) nel 1977, dove – presso il Muséè d’Unterlinden – ella vide il capolavoro del pittore tedesco noto con il nome di Grünewald e presumibilmente dipinto tra il 1510 e il 1516.
Conosciamo la forte impressione che l’opera ebbe sulla Guidacci grazie alla preziosa testimonianza della psichiatra e psicoanalista Marcella Magherini, autrice del libro La Sindrome di Stendhal, anch’esso pubblicato nel 1980.[2] Infatti, fu proprio la Guidacci a voler incontrare la dottoressa – allora responsabile del Servizio per la salute mentale dell’Arcispedale di Santa Maria Nuova di Firenze – descrivendo la propria esperienza emotiva di fronte all’opera di Grünewald.
Le due donne già avevano intrattenuto uno scambio epistolare “fitto e affettuoso di idee sul rapporto psicoanalisi e arte”.[3] Ciò che Margherita provò al primo sguardo dell’opera fu scardinante al punto che dovette abbandonare la stanza. Certo le era nota quella poderosa macchina d’altare a più scomparti, cui Eliot aveva fatto riferimento nella Waste Land e che aveva affascinato musicisti come Debussy e Hindemith.
Ma alla curiosità subentrò ben presto un senso di paralisi tanto da dover “sgaiattolare verso altre zone del Museo”. Nel colloquio (registrato) con Magherini, la Guidacci rivela “il senso di pericolo, come se si dovesse disgregare qualcosa in me, per lo meno squilibrare al massimo”. Inoltre, dichiara che solo la scrittura fu il modo per “venire a patti” con tale quadro” ossessionante e allarmante”.
Interessanti al riguardo le riflessioni della psichiatra fiorentina che per anni ha curato, descritto e indagato le esperienze emozionali di turisti in visita a città d’arte e fruitori di opere che finivano per comunicare loro una sorta di pienezza di sgomento, di caduta.
Ma soprattutto ci sorprende il lavoro linguistico della poetessa che, aiutata dallo studio e dalle riproduzioni del capolavoro, ha “rimontato” il polittico tra sé e sé superando così i forti turbamenti emotivi. Il codice pittorico viene convertito in quello verbale; la lettura dei versi si accompagna alle splendide visioni del Maestro tedesco, seguendo le scelte operate dalla poetessa.
Di Mathis Neithardt, meglio conosciuto con il nome di Grünewald, nato a Wurzburg nel 1460, poco ci è noto. Certamente fu invitato dai frati antoniani di Isenheim a dipingere il grande polittico per la chiesa del loro convento a cui, secondo la vocazione ospedaliera del loro ordine, erano annessi un lazzaretto e un ospizio. Lì, in particolare, venivano curati malati con problemi alla pelle, cui gli stessi monaci provvedevano con unguenti ricavati dalla sugna del maiale ed erbe mediche.
L’iconografia di Sant’Antonio spesso accompagnato dal suino si deve a questa secolare cura del “fuoco di Sant’Antonio” già noto come ignis sacer per il bruciore che provocava.
Ma veniamo al testo poetico suddiviso in Prologo, Primo Ciclo, Secondo Ciclo, Terzo Ciclo ed Epilogo: in queste partiture (“una sorta di sinfonia in tre movimenti” secondo il critico Raffaele Crovi) è presentata la vicenda del Cristo in croce, sugli “assi cartesiani della vita e della morte” e delle figure che contemplano e interrogano “l’albero secco” in un “crocevia di tenebre”.
Nel Primo e Secondo Ciclo è descritta la storia della salvezza secondo le sequenze di Crocifissione, Deposizione, Annunciazione e Risurrezione. Nelle altre partiture la parola poetica è dedicata a personaggi dipinti nell’opera – i Santi Antonio, Sebastiano, Paolo l’Eremita – e allo stesso pittore il cui soprannome (tradotto dalla poetessa “verde bosco”) appare nel Prologo come un invito ad entrare in sentieri non piani e carichi di agguati.
Lo smarrimento risulta infatti un filo rosso che lega visioni e parole; note di turbamento si intrecciano tuttavia con quelle, pur brevi, di speranza. Il corpo del Cristo in croce disturba e scandalizza per le piaghe e le ferite che percorrono l’intera epidermide.
Nel “vuoto” risuona il grido di Chi avverte l’abbandono di Dio e “tutto il dolore umano”, “fatto di roccia”, è presente nelle tre figure ai piedi della croce. Eppure, nel margine destro dello stesso brano pittorico
avanza l’Agnello vittorioso
verso la sua piagata controparte.
E un profeta ci addita, perentorio,
salvezza nella metafora
È la descrizione del Battista che incede indicando il Cristo; accanto a lui l’agnello con la croce. Sostiamo sull’immagine del piccolo e mite animale, ricordando i malati per lo più affetti di malattie della pelle e ricoverati nell’ospedale di Isenheim. Sappiamo che i degenti venivano portati al cospetto dell’opera del Maestro tedesco ove potevano pregare identificandosi con il Cristo sofferente, dall’epidermide percorsa di incisioni dolorose e deturpanti.
Il commento poetico della Deposizione sosta sul pianto di Maddalena e sui volti addolorati di chi sta presso “il breve rettangolo di pietra”: il volto della madre è interamente velato; quello del discepolo Giovanni è abbassato, “esangue nella muta pietà”. Il verso finale è un contrappunto dedicato a chi “è ormai libero tra i morti”.
Nel Secondo Ciclo, la descrizione dell’icona fiammeggiante della Resurrezione è preceduta da versi dedicati all’ Annunciazione e al Concerto Celeste. Come se solo una chiamata dall’alto potesse introdurre la scena solenne del Cristo risorto. Maria – “colomba spaventata” – è la giovinetta che “con ignota dolcezza e ignota pena” (…) “sente stormire in sé i giorni futuri” nell’intimità della sua dimora. E “d’intorno tutto è musica”. Poi compare la “luce violenta” che abbacina e atterrisce i “tre soldati con l’inutile spada e l’inutile elmo” e il Signore “nuovo Mosè per un più vasto popolo…si innalza dalla tomba”.
La Guidacci sentì particolare sintonia con la personalità di Grünewald, descritto dalle fonti come uomo chiuso, solitario e contemplativo. Sappiamo che egli, dopo la fama acquisita con il polittico di Isenheim, disdegnò la vita di corte e visse vagando poveramente in una Germania ferita da guerre di religione e dalla rivolta dei contadini.
A lui Margherita si rivolge sia nel Prologo sia nell’Epilogo dove gli ultimi versi sono dedicati al “sogno lustrale” del pittore. Le cronache narrano di una commessa che l’artista tedesco non riuscì a portare a termine: una fontana, ovvero “preparare un bacino per accogliere l’innocenza dell’acqua”. Sappiamo che la poetessa da ragazza aveva sperimentato (come già una zia) il dono della rabdomante, la ricerca dell’acqua dal terreno nel suo Mugello, “come se fossi una pianta che l’aveva trovata con le sue radici”.[4]
La comunione con gli elementi naturali ritorna spesso nelle sue liriche, dove risuonano alti echi di Emily Dickinson. La sorgente biblica insieme a quella classica ha vitalizzato la sua ricerca interiore e restituito una fonte di purezza a cui abbeverarsi.
Le scelte poetiche e di vita della Guidacci – rigorose e libere, meditative e di scavo sul presente storico – non hanno ricevuto l’accoglienza critica che meritavano ma – come sostiene Margherita Ghilardi – “che la fama fosse un inutile diadema o un cibo dentro un piatto scivoloso lo aveva imparato molto presto leggendo Emily Dickinson”.
Nei brani ispirati al pittore che morì dimenticato “in una fossa di appestati fuori dalle mura di Halle”, si ode tuttavia un rigoglio di acqua pura, “un racconto d’anima dove nel ripensamento di un capolavoro antico s’innerva un penetrante scavo sulla drammatica considerazione dell’uomo contemporaneo” (Alberto Frattini).
[1] MARGHERITA GUIDACCI, Poesie, a cura di Maura Del Serra, Le Lettere, Firenze 1999 e 2022; Per Margherita Guidacci, Atti delle giornate di studio, Lyceum Club, Firenze 15-16 ottobre 1999 a cura di M.Ghilardi, Le Lettere, Firenze 2001; Preghiere per la notte dell’anima. Convegno di studi su Margherita Guidacci (1921-1992), Panzano in Chianti, Edizioni Feeria-Comunità di San Leolino,2019
[2] GRAZIELLA MAGHERINI, La sindrome di Stendhal, GEF spa Firenze 1989; Feltrinelli Milano 1992.
[3] GRAZIELLA MAGHERINI, Perturbante, estetico e creazione artistica in Per Margherita Guidacci, cit., pagg. 119-133
[4] MARGHERITA GUIDACCI, Memorie di rabdomante in “Il Popolo”, 14 luglio 1957.
Ringrazio l’Autrice per l’affresco sul componimento di Margherita Guidacci, che apre una finestra su una parte di mondo che ignoravo. L’ho letto e riletto con piacere, ricavandone spunti per un personale approfondimento.