PAROLE IN VIAGGIO/4
L’emergenza Coronavirus ha costretto a rinviare diversi appuntamenti di “Parole in viaggio”, l’iniziativa organizzata in nove città italiane per celebrare il bicentenario di Marietti 1820. Tuttavia, grazie alla collaborazione con l’Ansa, le sintesi delle lezioni vengono pubblicate sul sito dell’agenzia di stampa e le interviste agli autori proseguono in radio, con la rubrica “Il posto delle parole”, condotta da Livio Partiti. L’iniziativa si avvale della collaborazione di Bper banca, Emme promozione, Edimill e Tuna bites. Ogni sette giorni Settimananews propone le sintesi delle lezioni e le interviste radiofoniche. Proseguiamo con la parola Memoria, affidata ad Anna-Vera Sullam Calimani, docente di Lingua e Storia della lingua italiana all’Università Ca’ Foscari, autrice per Marietti del libro I nomi dello sterminio. Definizioni di una tragedia.
Nell’uomo la memoria è il modo con cui la mente ritiene o rievoca determinate immagini, nozioni, persone, avvenimenti.
La memoria storica o collettiva indica i valori che derivano dalla conoscenza della propria storia e che costituiscono il patrimonio spirituale di un popolo o di un gruppo e gli danno coscienza della propria identità.
L’identità è ciò che caratterizza una persona o un popolo, la memoria è ciò che preserva questa essenza dall’erosione del tempo. Quando una persona è ammalata di Alzheimer perde la memoria di sé stessa quindi perde la propria identità. Se un popolo non ha memoria esso perde la propria identità come se soffrisse di un Alzheimer collettivo (per riprendere un’immagine creata da Claudio Magris).
Questo vincolo biunivoco tra memoria e identità è fondamentale per il popolo ebraico. “Noi ebrei” diceva il grande filosofo Martin Buber nel 1938, “siamo una comunità basata sul ricordo”. E infatti la Torah (la Bibbia ebraica) oltre duecento volte impone di ricordare (zachor!, ricorda!) o di non dimenticare .
Lo Shemà, la preghiera più importante per ogni ebreo, recita: “Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno …. E queste parole che io ti comando oggi saranno nel tuo cuore, le ripeterai ai tuoi figli e ne parlerai”.
Il significato di questo testo è duplice: da un lato è necessario portare nel cuore, quindi interiorizzare e fare proprie a livello emozionale queste parole, dall’altro esse devono essere trasmesse alle generazioni future. “Ricordati di ricordare perché se non lo farai non sarai ricordato”: la memoria, cioè, custodita di generazione in generazione, è l’antidoto più potente contro la morte e contro l’oblio.
La memoria,quindi, non va solo compresa e coltivata ma va trasmessa. La memoria, tuttavia, è selettiva: molti eventi infatti sfuggono al nostro ricordo e ciò è anche un bene perché l’eccesso di ricordo susciterebbe confusione e condurrebbe a una visione ossessiva del passato. Quali ricordi vanno allora trasmessi?
Per gli ebrei l’imposizione della memoria riguarda solo alcuni momenti fondanti della loro identità. Nel Deuteronomio (25, 17-19) è scritto: “Ricorda cosa ti ha fatto Amalek in ogni generazione”. Amalek è assunto come simbolo del “nemico” per antonomasia. Questo nemico, quello cioè che tenta di estirpare gli ebrei dalla faccia della terra cominciando dai più deboli e disarmati, va ricordato per sempre, per lui non esiste l’oblio. Perciò il ricordo della Shoah, del tentativo di sterminare tutti gli ebrei d’Europa, non potrà né dovrà mai essere dimenticato.
La memoria, tuttavia, non deve essere solo un ricordo passivo di ciò che è stato e non deve neppure trasformarsi in un monumento istituzionalizzato consegnato alla storia, ma deve essere invece memoria viva. Per questo è necessario innestare la memoria nel presente e renderla parte della coscienza individuale. Bisogna creare una memoria storica, corale, condivisa, comune a un gruppo, sia esso nazionale o transnazionale.
Oggi nel mondo la comprensione dello sterminio degli ebrei d’Europa è diventato patrimonio accolto da una larga maggioranza di persone. Per motivi psicologici, politici, sociali e anche religiosi ci sono voluti, però, parecchi decenni per giungere all’attuale condivisione.
Emblematica di questo sofferto percorso interpretativo è la ricerca del nome con cui definire quegli avvenimenti. Nel corso dei decenni sono stati creati molti nomi ma ancora oggi non si è giunti a un’unica definizione.
Dare un nome significa compiere un’estrema sintesi della nostra visione di un evento, dotarlo di un titolo che ne riassume il significato. Ciascuno dei nomi con cui è stato chiamato lo sterminio degli ebrei, Hurban, Catastrofe, Evento, Universo concentrazionario, Lager, Auschwitz, Soluzione finale, Olocausto, Shoah, è indice di una diversa visione del mondo e di un diverso approccio al passato.
Il tentativo di dare un unico nome allo sterminio continua a riflettere l’estrema difficoltà di rappresentarlo in tutta la sua orribile realtà, senza mistificarlo o banalizzarlo, per preservarlo dall’oblio e conservarne la memoria.
Ascolta l’intervista ad Anna-Vera Sullam Calimani