Fenomenologia della percezione è il capolavoro di Maurice Merleau-Ponty (1908-1961) e, tra l’altro, ripropone in maniera originale e feconda la fenomenologia di matrice husserliana. Anch’egli prende le mosse dalla “meraviglia” (lo stupore, il thaumázo) dinanzi alle cose, fino ad arrivare a scrivere che «La vera filosofia consiste nel reimparare a vedere il mondo, e in questo senso una storia raccontata può significare il mondo con altrettanta ‘profondità’ che un trattato di filosofia».
Un aspetto vorrei rilevare, in particolare. Rispetto al fenomeno della percezione (che cos’è vedere? Che cos’è udire? Che cos’è sentire), l’autore si confronta sia con l’empirismo, in senso lato, che tende a ridurre la percezione stessa agli stimoli esterni, provenienti dagli oggetti, e alla loro stimolazione degli organi di senso, sia con l’intellettualismo, di nuovo in senso lato, tendente a concepire il mondo come frutto ed espressione della nostra attività mentale.
E, ecco il punto, scrive: «All’empirismo mancava la connessione interna dell’oggetto e dell’atto che esso provoca. All’intellettualismo manca la contingenza delle occasioni di pensare. Nel primo caso la coscienza è troppo povera e nel secondo troppo ricca perché qualche fenomeno possa sollecitarla. L’empirismo non vede che abbiamo bisogno di sapere cosa cerchiamo, senza di che non lo cercheremmo, e l’intellettualismo non vede che abbiamo bisogno di ignorare cosa cerchiamo, senza di che, di nuovo, non lo cercheremmo».
A me sembra che, al di là della polemica nei confronti delle due tendenze (in apparenza) opposte, sia qui condensato il senso della ricerca filosofica: essa si nutre di un “bisogno di sapere” e di un “bisogno di ignorare”.
Dalla povertà, dall’indigenza, dalla mancanza muovono la spinta, il desiderio di “cercare”; al tempo stesso, il desiderio neppure nascerebbe se, ad esempio, non fossimo consapevoli di quella mancanza, di quella lacuna, di quella dimensione deficitaria rispetto a noi stessi e alle cose intorno a noi.
Qui giunti, come non ricordare il mito platonico di Eros (l’amore), figlio di Poros (l’ingegno e, insieme, l’abbondanza) e di Penía (la povertà, la penuria, la mancanza, dunque il bisogno)? Se avessimo o se sapessimo tutto, non sentiremmo il bisogno e non avremmo il desiderio dell’altra/o (dell’Altro/a) o di inseguire la conoscenza; specularmente, se ignorassimo l’altro/a o il mondo, neppure sarebbe concepibile tale desiderio. Così Eros, Platone lo aveva intuito, è paragonabile al filosofo. Non a caso, filo-sofia, etimologicamente, non vuol dire “sapienza”, bensì amore della sapienza. Se già la possedessimo, non la cercheremmo.
Libro letto! Molto bello! La teologia, se frequentasse questo filosofo, ne gioverebbe!