Modernità, corpi, intelligenze

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Aggettivi come postmoderno e ipermoderno ci sollecitano innanzitutto a definire e a caratterizzare sempre meglio l’idea di modernità, a iniziare dai suoi aspetti aurorali. Concepire l’inizio del moderno come coincidente con l’Illuminismo, infatti, porta quasi inesorabilmente a considerarlo concluso già nel primo Novecento. Porlo più indietro, nella temperie complessa dell’Umanesimo e del Rinascimento, tra XV e XVI secolo, può spingerci a estenderne la durata, ad esempio fino alla nuova, possente ondata della globalizzazione della seconda metà degli anni Ottanta.

Se poi proviamo a scorgerne le radici più remote e, insieme, più profonde nella “crisi tardomedievale” (XIV secolo), potremmo considerare il nostro come il tempo della tarda modernità, ed è l’opzione che propongo. Potremmo, dunque, ricorrere alla metafora dell’elastico teso: più lo si tende a un estremo (corrispondente alle origini), più risulta teso anche all’altro estremo (quello del tramonto). Soffermiamoci per un istante sulle considerazioni di Cesare Vasoli:

Nei decenni dei quali qui si parla, tra l’ultimo scorcio del Trecento e la metà del Quattrocento, un’aspra competizione, che, a volte, dava luogo a conflitti accademici particolarmente violenti, opponeva, nelle maggiori università europee, i professori rimasti fedeli ai massimi maestri del XIII secolo e quindi seguaci della via antiqua (albertisti, tomisti, scotisti, ma anche ‘egidiani’ e discepoli di Enrico di Gand), i sostenitori dell’esegesi ‘averroistica’, libera da ogni preoccupazione teologale e fedele alla pura interpretazione dei testi aristotelici (e, quindi, influenzati dall’insegnamento di Sigieri di Brabante, di Giovanni di Jandun, Taddeo da Parma e Angelo d’Arezzo) e coloro che invece si richiamavano alle dottrine più recenti dei nominales e alla problematica logica, ‘fisica’ e teologica elaborata da Guglielmo d’Ockham e agli scritti dei magistri inglesi Riccardo e Ruggero di Swineshead (spesso confusi sotto il nome comune di ‘Suisset’) e Guglielmo Heytesbury (‘Entisber’), dai sorbonienses Giovanni Buridano, Gregorio da Rimini, generale degli agostiniani, Nicola Oresme, Nicola d’Autrecourt, e dai più recenti e contemporanei discepoli tedeschi di Buridano, Alberto di Sassonia e Marsilio di Inghen (la via moderna)[1].

È qui che si situa il primo riferimento alla “modernità”. Non a caso, la sensibilità contemporanea è portata a cogliere e a provare una spiccata sintonia e simpatia verso autori come Guglielmo d’Ockham. Eppure non pochi umanisti includevano la sua logica fra i “ferri vecchi” dell’astrazione dei quali sbarazzarsi, a conferma del rapporto delicato e complesso tra “vecchio” e “nuovo” che caratterizza ogni stagione culturale e ogni epoca.

Per contro, ad esempio, la teoria dell’impetus di Buridano, maturata fra 1330 e 1340, verrà in parte ripresa da geni rinascimentali come Leonardo da Vinci e contribuirà gradualmente all’elaborazione del “principio di inerzia”, fra i fondamenti della Fisica moderna. Analogamente, le teorie e le acquisizioni “sull’intensità” dei fenomeni degli studiosi “mertoniani” (così chiamati dal Merton College di Oxford), detti pure calculatores, influirono notevolmente sul sapere scientifico rinascimentale e moderno.

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Non solo; vi sono concezioni e veri e propri paradigmi che tendono a riproporsi tenacemente, fino ai nostri giorni. Proprio Leonardo, ad esempio, finisce per avere una visione del corpo umano come una “macchina” e guarda al mondo stesso come alla “terrestre macchina”. Al tempo stesso definisce il corpo umano “minor mondo” (ricorrono qui, in forma diversa, le idee tipicamente rinascimentali di microcosmo e macrocosmo) e “trasferisce la sua visione e concezione del mondo anche nelle macchine e nei congegni ingegnereschi, in diversi dei quali egli pretenderebbe di infondere quella stessa vitalità e organicità presente nella natura e negli organismi viventi, fino a farli vivere di forza propria[2].

Ai giorni nostri, ciò rimanda certo all’automa, al robot o alla cibernetica, ma può estendersi anche al complesso terreno dell’intelligenza artificiale nel suo insieme. Da un lato, infatti, tendiamo a scorgere in essa l’espressione di algoritmi sofisticati, dunque di complicati schemi di tipo matematico, quasi si trattasse di una versione spinta all’ennesima potenza del calcolatore (o elaboratore) elettronico; dall’altro, però, in considerazione soprattutto della sua capacità di interagire – se non di relazionarsi – e della sua spiccata reattività, potremmo confonderla con una forma artificiale di “vitalità naturale”. Un ossimoro vero e proprio, dalle capacità formidabili e dalle conseguenze imprevedibili.

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L’algoritmo, in fondo, è per noi rassicurante, proprio in quanto ci consente di coltivare l’idea (o l’illusione) della prevedibilità del “comportamento” di quella “macchina”. Il costrutto di macchina “vivente”, per contro, la pone radicalmente in discussione, fino a demolirla. Un costrutto reso più forte dal “biochip”, inteso come esempio e metafora del connubio tra biologia e telematica, tra genetica, Dna e cellula vivente da una parte e circuiti elettronici dall’altra. Un’intimità tra mondo organico e mondo inorganico mai conosciuta e vissuta prima, neppure in ambito fantascientifico.

Prima di continuare tale discorso, comunque, proviamo a porci un quesito: l’espressione “intelligenza artificiale” indica solo che il “substrato” di tale intelligenza non è biologico (o non è solo biologico) oppure indica anche un tipo di intelligenza? Sulla base del “modello dello sviluppo cognitivo precoce”, infatti, lo psicologo Howard Gardner elaborava la “teoria delle intelligenze multiple”: dai principali sistemi simbolici, attraverso tre momenti evolutivi, prenderebbero forma sette modalità simbolico-cognitive definite, appunto, intelligenze multiple.

I sette tipi di intelligenza sono: quella corporeo-cinestesica, quella interpersonale, quella intrapersonale, quella linguistica, quella logico-matematica, quella musicale, quella spaziale. Coesistono tutti in ogni individuo, pur predominando uno o più di essi a seconda del temperamento, delle vicende psicologiche e relazionali di ciascuno, del contesto culturale (e anche delle diverse età)[3]. Lo “stile cognitivo” dell’intelligenza artificiale non può non scostarsi da tali forme di intelligenza: evidente più di tutti è il caso di quella corporeo-cinestesica, nel momento stesso in cui all’intelligenza artificiale non corrisponde un corpo, o comunque non corrisponde un corpo simile al nostro.

La nostra mente, infatti, è esposta a stimoli esterni e a stimoli interni, alcuni dei quali strettamente legati al corpo: essa, perciò, non si “situa” solo nel cervello, non “corrisponde” solo a esso, corrispondendo piuttosto al corpo nel suo insieme. È, anzi, il particolarissimo e singolare connubio mente-corpo (o corpo-mente) a caratterizzarci come umani, tanto che lo stesso Cartesio, il cui nome in genere viene strettamente associato al dualismo tra res cogitans e res extensa, sente di dover scorgere nella “ghiandola pineale” il possibile “luogo” di tale connubio. Per non dire della tradizione fenomenologica, lungo il solco della quale Umberto Galimberti esorta a superare quel dualismo, senza con ciò cadere in facili riduzionismi, e ad aprirsi a una riconsiderazione articolata e, per così dire, multifocale del corpo[4].

Egli neppure, tuttavia, sfugge a quella che potremmo definire la trappola della zoologia: l’idea, cioè, che il corpo vivente corrisponda in ogni caso a un corpo animale. Poniamoci, invece, in ascolto di Giacomo Marramao:

Ora assistiamo a un ulteriore cambio di paradigma. Non più dalla cibernetica ai sistemi biologici autopoietici, ma dal modello animale a quello vegetale. La metafora vegetale fa irruzione come chiave esplicativa del potenziale racchiuso nella rete: intelligenza complessiva che può fare a meno della struttura gerarchica che organizza la vita nel mondo animale: in cui il cervello detiene il posto di comando. Le piante non possiedono una cabina di regia centrale ma dispongono in compenso di capacità sensoriali diffuse: percezione e comunicazione. Per questo esse possono rappresentare un paradigma per il robot: rivoluzionando e decentralizzando il concetto stesso di intelligenza[5].

Un universo non “più unidirezionale ma pluridirezionale. Un multiverso dinamico prossimo alla coppia rinascimentale di microcosmo e macrocosmo. Dove quella che un tempo si chiamava identità trapassa da un modello sostanziale a un modello reticolare: segnando in tal modo una definitiva presa di congedo dal paradigma verticale”[6].

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Al tempo stesso, aggiungerei, il rifiuto del paradigma verticale, con un centro o un vertice a cui tutti gli altri (o comunque molti di loro) siano subordinati, può rappresentare il limite da porre alla crescita dell’intelligenza artificiale. E qui si situa il nostro dovere di coniugarla con la democrazia, con le sue istanze di eguaglianza, libertà, partecipazione. Nostro in quanto è da scongiurare il rischio della deresponsabilizzazione legato allo sviluppo impetuoso di tale nuova forma di intelligenza: non dovremmo a tal punto sentircene travolti da farne un alibi per rinunciare alla sfida immane, alla ricerca permanente e alla prova della democrazia.

Neppure la più formidabile o mostruosa delle intelligenze dovrà esimerci da tale sforzo e da tale ricerca, i quali, anzi, dovranno caratterizzarci sempre più come animali sociali e politici. Come esseri corporei e sessuati, e come tali impegnati a relazionarci concretamente con altre donne e con altri uomini in carne e ossa; consapevoli più che mai, anzi, di rappresentare, ciascuno e ciascuna, proprio l’espressione di quelle ossa e di quella carne, di quelle relazioni, di quella natura sessuata. Corpi e intelligenze di donne e di uomini, consapevoli delle differenze, fin nelle viscere, a iniziare dalla differenza sessuale.

Differenza e differenze che aggiungono linfa e sale alle relazioni. Le discriminazioni di genere, lo stupro, il femminicidio, le mille ingiustizie subite da donne e bambine in ogni angolo del globo sono legate proprio alla mancata, piena, consapevole percezione della differenza, sopraffatta da pulsioni primitive, violente, in-differenziate; dalla pulsione arcaica, sorda e cieca del dominio maschile. Ascoltiamo per un attimo il richiamo di Luce Irigaray:

Certamente l’aspetto negativo delle pulsioni di morte appare evidente. Ma quello che è stato troppo poco sottolineato, fino ad essere ciecamente contestato, è il carattere distruttivo presente nelle stesse pulsioni di vita, in quanto esse non rispettano l’altro da sé, in particolare l’altro della differenza sessuale. Se Freud è arrivato, alla fine della sua vita, a un tale pessimismo sull’avvenire della cultura, se la psicoanalisi ha prodotto degli effetti assai problematici nelle relazioni private e collettive, è perché Freud non parla che della sessualità maschile arcaica, e perché limitarsi a un solo polo della differenza sessuale vuol dire limitarsi al caos del desiderio primitivo precedente a ogni incarnazione umana. L’uomo di Freud somiglia all’Urano della mitologia greca, il quale non ha altro desiderio che quello di praticare senza interruzione l’incesto, non vuole che dai suoi accoppiamenti nasca prole, e non per virtù, ma per gelosia, poiché dei figli limiterebbero l’indeterminatezza del suo potere e la sconfinatezza della sua seduzione[7].

E a cogliere in maniera forse ancor più articolata l’intimo nesso fra i corpi, la differenza, le intelligenze, i legami, le relazioni e le costruzioni politiche (corpi a loro volta, in senso metaforico) è Adriana Cavarero[8].

Detto altrimenti, il discorso sul corpo, in riferimento a quello sull’intelligenza artificiale, rischia di farsi un po’ astratto, retorico e persino disincarnato, per paradossale che sembri, se manca l’intimo legame con la realtà e la questione della differenza sessuale. Quasi si trattasse del “corpo in generale”, di un corpo qualsiasi e non dei corpi, dei miliardi di corpi di uomini e di donne, di bambine e di bambini: corpi che vivono e che muoiono, certo, e, insieme, corpi storici, situati nel tempo e nella storia.

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Grazie a tali consapevolezze, poi, potremmo impegnarci a tessere la trama delle intelligenze diffuse, “in orizzontale”, comprendente anche quella artificiale. Si tratterebbe, come per tutte le utopie, di un orizzonte verso il quale tendere e al quale provare ad approssimarci, naturalmente, più che di un traguardo a portata di mano. Senza dimenticare neppure per un istante la politicità delle stesse scelte e opzioni riguardanti la tecnologia: occorre esercitare l’arte e la pratica del discernimento e della decisione rispetto alle diverse possibilità, senza cedere all’idea che questa o quella scelta non abbia alternative.

Sono, saranno sempre di più decisioni controverse, difficili, conflittuali. Le “intelligenze diffuse” verso le quali tendere, quindi, non rappresentano, non rappresenteranno la fine della storia e la sospensione di tensioni e contrasti di ogni tipo o una sorta di “paradiso in terra”. L’elastico della modernità, teso al massimo, ci mostrerebbe così che alcuni dei sogni dei lontani secoli del tardo medioevo e del Rinascimento possono tradursi in fatti e in atti, in scelte e in comportamenti.

Da qui il senso dell’aggettivo “ipermoderno”: aspirazioni e aspetti del sapere e della vita individuale e collettiva coltivati per secoli giungono alle estreme conseguenze, le più alte, le più profonde, le più complesse. Come è noto, tuttavia, le differenze quantitative finiscono per comportare differenze qualitative, e allora la tarda modernità lascia presagire una conclusione, il tramonto di un’epoca, con le incognite, le opportunità e i rischi a ciò associati.

La trama delle intelligenze diffuse, “orizzontali”, infine, rimanda, soprattutto per contrasto, all’utopia platonica della “noocrazia”, con pochi “filosofi” ai vertici.


[1] C. Vasoli, Le filosofie del Rinascimento, a cura di P.C. Pissavino, Bruno Mondadori, Milano 2002, p. 114.

[2] Ivi, p. 445, corsivi miei.

[3] M. Alessandrini, F.M. Ferro, R.M. Salerno, Stili cognitivi e adolescenza. Prospettive psicoanalitiche sulla natura del pensiero, Medi@med edizioni, Pescara 1997, pp. 128-132.

[4] U. Galimberti, Il corpo, Feltrinelli, Milano 1998.

[5] G. Marramao, Per un nuovo Rinascimento, Castelvecchi, Roma 2020, pp. 39-40.

[6] Ivi, p. 40, corsivo mio.

[7] L. Irigaray, Il tempo della differenza. Diritti e doveri per i due sessi. Per una rivoluzione pacifica, Editori Riuniti, Roma 1989, p. 73.

[8] Si consideri, per limitarci solo a un esempio, un testo come Corpo in figure. Filosofia e politica della corporeità, Feltrinelli, Milano 2000.

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Un commento

  1. Fabio Cittadini 12 agosto 2024

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