Museo dell’emigrazione

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Pompeo Mariani, Lagrime d’addio (1895).

Pompeo Mariani, Lagrime d’addio (1895).

Ci sono immagini che sanno muovere pensieri e corpi. Attraggono e suscitano percorsi imprevisti ma necessari. Così fu per me un quadro visto anni fa in una bella mostra genovese[1]. In Lagrime d’addio (1895) Pompeo Mariani dipingeva due donne, avvicinate da un composto dolore e dallo sguardo rivolto al piroscafo ormai sullo sfondo. Rimaste sole, sull’orlo di una banchina del porto, piangono la partenza per mare di qualcuno certamente caro.

Sono vicine, l’una stringe l’altra ai fianchi, nel tramonto, fra terra, cielo e mare. Si vivacizzava così il ricordo di una narrazione risalente all’ infanzia: mia nonna materna, ancora bambina, insieme a sua madre, aveva accompagnato a Genova la sorella che con il marito e il piccolo figlio si imbarcavano alla volta di Buenos Aires. Lì salutarono quella giovane famiglia che non avrebbero mai più rivisto. Un racconto triste (a cui non volevo credere), come il destino di molti italiani che oggi un modernissimo Museo nazionale racconta con strumenti e percorsi innovativi.

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Ho recentemente visitato il Museo dell’Emigrazione italiana nato due anni fa, sito in Genova nella Commenda di San Giovanni di Prè. Una sede particolarmente adatta e accuratamente restaurata per narrare storie di uomini, donne, famiglie che proprio dalle banchine del porto vicino salparono, con bagagli colmi di povere cose, ricchi sogni, speranze. La Commenda, nel quartiere di Prè (da “prato”), è un bellissimo complesso monumentale medioevale: due chiese sovrapposte e un ospitale che accoglieva pellegrini, soldati e mercanti di passaggi. Ѐ posto in uno sito prospicente al mare che, prima dell’urbanizzazione, era costellato di prati con rivoli che scendevano dall’arco collinare.

Il proseguo di via Pré è infatti Via del Campo, quella cantata da Fabrizio De Andrè. Consigliamo decisamente la visita (anche virtuale, data la ricchezza del sito internet del museo)[2] e la scoperta di spazi interattivi ritagliati sui tre piani del percorso espositivo tra sale a tratti affrescate e dai soffitti a volte e a cassettoni, il loggiato del monastero posto di fronte al mare, aperture da cui si gode la vista del bel campanile romanico con triplo ordine di bifore e guglia piramidale.

Gli interni più autentici sono però quelli dei ritratti di singoli e di percorsi esistenziali presentati grazie a ricerche storiche e testimonianze. Saltano le abituali categorie quando si è invitati a osservare volti precisi, ascoltare e leggere storie di persone nella loro irripetibile e unica esperienza.  I percorsi di migrazioni, anteriori all’Unità d’Italia (dall’Homo sapiens alle transumanze) sono vere sfide a pregiudizi, stereotipi e luoghi comuni. Inevitabile la decostruzione prima di affrontare una tematica. Infatti – con dati, mappature e ricerche di studiosi come Massimo Livi Bacci[3] – si scopre come lo spostarsi sul territorio sia una prerogativa della specie umana fin dai suoi esordi. Inoltre, proprio tali migrazioni favorirono sviluppi sociali di grande rilievo.

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Su schermi, di cui il museo è ampiamente dotato, si visualizzano precisi e documentati tracciati: sono i percorsi dei migranti interni alla penisola e verso i vicini stati europei. Appaiono le prime fotografie di persone che si muovevano per necessità di lavoro: balie, spazzacamini, “mersà” (così chiamati per la cassetta che portavano, piena di merci) ammaestratori di orsi (“orsanti”) e altri gruppi famigliari.

Dopo l’unificazione italiana, le mete dei viaggi si fanno più lontane e i gruppi più numerosi. Le crisi economiche che accompagnarono le moderne trasformazioni sociopolitiche del paese (la migrazione è l’effetto della modernizzazione e non della miseria) alimentarono malesseri e bisogni. Attese e fantasiose mitologie stimolarono le partenze. Ricordiamo il film di Emanuele Crialese[4] in cui la famiglia siciliana dei Mancuso si imbarca per l’America, il Nuovo Mondo dove si favoleggiavano ortaggi dalle dimensioni gigantesche.

Da qui disillusioni, rientri a casa per poi, magari, riprendere il volo. Non a caso i nostri migranti erano nominati “rondini” da chi li accoglieva in modi non proprio apprezzabili né dignitosi. Una sezione di questo museo senza oggetti è perciò dedicata alla spinosa questione del razzismo, che non va confuso con la xenofobia ovvero l’avversione indiscriminata nei confronti dello straniero. Ben diversa, infatti, è la feroce discriminazione o addirittura il genocidio giustificati da ideologie che rivendicano la presunta superiorità di una razza sulle altre. Ideologie nate anche da radicati sensi di colpa.[5] Utile allora lasciarsi coinvolgere in postazioni multimediali interattive con voci straniere a tratti brusche e inospitali.

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Tra gli spazi espositivi un giovane incaricato mi accompagna e interviene quando qualche postazione multimediale sembra non funzionare. Vedo ragazze e studenti che, più esperti della sottoscritta, si muovono con scioltezza tra cuffie attrezzate e pulsanti che accendono immagini e filmati.

Io però resto rapita da due spazi allestiti a cielo aperto: quello del Memoriale in cui un’installazione – corde rosse annodate appese a una rete – ricorda alcune delle tragedie delle migrazioni italiane: Marcinelle (1956) in Belgio, Mattmark (1965) in Svizzera, i linciaggi a sfondo razzista di New Orleans in USA nel 1891 e purtroppo altre ancora, aggiornate da una postazione multimediale.

Ulteriore spazio è il piccolo orto con vasche in cui crescono cipolle, pomodori, zucchine e l’immancabile, orgoglioso basilico. Indica una prassi abituale: i migranti portavano spesso con sé i semi della propria terra, convinti che avrebbero potuto ricreare parte del proprio suolo in un paese straniero. E cibarsi di quel che – pur poveramente – offrivano le loro mense.

Ma forse quei semi dicevano altre speranze, illuminate dalla Parola di Dio: un nuovo regno, paragonato al granello di senape (Lc13,18-19); i molti frutti del chicco di grano che muore (Gv 12,24). Ricordiamo che i migranti inglesi che nel ‘600 colonizzarono le coste dei futuri Stati Uniti leggevano quell’esodo con categorie bibliche. Forse manca, nel museo genovese, una sezione dedicata alle preghiere di chi partiva.

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All’uscita mi accorgo che anche oggi, tra quelle vie transitano persone diverse: turisti con trolley, giovani dalla pelle scura con borsoni pesanti sulle spalle, abitanti di una zona un po’ depressa ma vitale, in una bellissima città che lì evidenzia i suoi stratificati passaggi. Vicoli accanto ad arterie cittadine molto trafficate; abitazioni dismesse tra splendidi palazzi storici risalenti ai gloriosi secoli della Repubblica marinara; piazzette con mercati ortofrutticoli non distanti dalle aule di sedi universitarie. Tra terra, cielo e mare.

Non so cosa vide mia nonna nel salutare sua sorella, nella Genova di primo ‘900. Probabilmente qualcosa di diverso dall’affascinante marina dipinta dal pittore naturalista Pompeo Mariani[6]. Come lui, tuttavia, immagino lacrime e preghiere. Come quelle di molti che anche oggi salutano con dolore chi parte con la speranza di abitare terre migliori. Sta anche a noi favorire questo auspicio, nella memoria dei nostri migranti.


[1] Scoperta del mare. Pittori lombardi in Liguria tra ‘800 e’900, Genova Palazzo Ducale, 9 luglio-24 ottobre 1999. (Milano: Mazzotta 1999).

[2]  https://www.museomei.it/it

[3] Massimo Livi Bacci, In cammino. Breve storia delle migrazioni (Bologna: Il Mulino 2019).

[4] Nuovomondo regia di Emanuele Crialese, Italia/ Francia, 2006.

[5] Segnaliamo le interessanti riflessioni di Alberto Burgio, Nel nome della razza. Il razzismo nella storia d’Italia 1870-1945 (Bologna: Il Mulino1999) e Critica della ragione razzista, (Bologna: DeriveApprodi 2020).

[6] Pompeo Mariani (Monza 1857-Bordighiera1927), attivo come ritrattista, fu tuttavia noto pittore di paesaggi e marine. Marilisa di Giovanni e Anna Ranzi (a cura di), Pompeo Mariani 1857-1927. Poesia della natura, fascino della mondanità (Cinisello Balsamo, Milano: Silvana Editoriale 2002).

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