Sarà un Natale di guerra. È la parola d’ordine che, con mille significati, richiama l’attenzione alla vigilia del prossimo Natale. Che vuol dire? E, soprattutto, che vuol dire quel “di guerra” messo come un’etichetta a caratterizzare un evento sacro, caro non solo ai cristiani ma, in senso lato, a tutte le persone che popolano la terra?
Ponendomi questa domanda con riferimento al prossimo Natale, mi sono sorpreso a riandare con la memoria ai tanti “precedenti” che ho incontrato nella mia ormai lunga esistenza e ho ritenuto di scegliere, tra i tanti che gli somigliano, il Natale del 1944.
Il riferimento è alle circostanze storico-politiche che precedettero e seguirono quell’evento precisamente qui, nel nostro paese, valutate naturalmente in modo soggettivo. Ed è esattamente in questo modo che mi è parso di trovare una nota comune tra l’ambientazione tra quello di allora e quello che ci accingiamo a vivere.
E la nota comune, il punto di coincidenza, mi è parso essere quello della confusione. Confusione dei fatti e della loro connessione e confusione delle menti nella loro capacità di interpretazione.
Il segno di confusione
Di quel che sta accadendo oggi nelle vicende politiche del nostro paese c’è poco da aggiungere a ciò che tutti conoscono: le incertezze e i giuochi di vertice che caratterizzano la condotta delle forze politiche, incapaci di stabilire una condotta comune o convergente di fronte alle sfide grandi o meschine che le realtà interne o europee presentano a proposito delle scelte da compiere per affrontare, di fronte alle sfide dell’inedita pandemia che sta infliggendo ingenti lutti e danni a tutto il continente.
L’impressione è quella di un sistema politico capace di magnificare se stesso quando le cose vanno bene, per capacità o fortuna, mentre ne svela lo smarrimento e l’impaccio quando sembra che le difficoltà stiano prendendo il sopravvento. E ciò a causa della prepotenza con cui la disgregazione egoistica dei partiti e dei gruppi organizzati, piccoli e grandi, pretende di far valere soluzioni che, in realtà, disgregano il tessuto politico anziché introdurvi elementi di coesione e così aggravano la crisi anziché aiutare a risolverla.
Quel doppio cataclisma
La guerra di questi giorni nostri è, in verità, cosa diversa, e fortunatamente senza spargimento di sangue, di fronte a quell’altra guerra, quella classica in corso nel 1944 che, alla fine dell’anno, aveva già accumulato gli effetti di un duplice cataclisma: quello militare, che aveva già prodotto migliaia di vittime, e quello civile, paragonabile ad un terremoto su tutto il territorio nazionale. Con l’aggiunta di una spaccatura politica del paese per effetto del collasso del regime fascista, cosa in sé ottima che, però, non portò ad un tranquillo avvicendamento di poteri ma dette luogo ad una guerra civile con un’Italia frazionata in tante sezioni di diverso colore e altrettante barriere confinarie presidiate da milizie armate.
Né migliore era la vita nelle grandi città, imprigionate tra la carestia dei generi di consumo e l’affamazione da borsa nera. Con sull’insieme la minaccia mortale dei bombardamenti aerei indiscriminati che potevano colpire, senza distinzione, o i grandi agglomerati urbani o gli isolati ciclisti che si inoltravano in pericolose rotte sulle vie nazionali o minori.
Lucro cessante, Stato… ristorante
Sviluppando i confronti, è facile constatare come allora fosse grama la condizione dei cittadini senza distinzione di categoria o di ceto sociale. Né l’operaio che perdeva il lavoro godeva di una cassa integrazione che fosse generosa, né il lavoratore autonomo, artigiano o commerciante o contadino, poteva invocare da uno stato inesistente un risarcimento per i danni subiti o per i guadagni mancati, come quello per i quali si sbracciano oggi i contemporanei colpiti, appunto, dall’epidemia da lucro cessante connessa alla pandemia da virus che inquina le atmosfere odierne.
Ciascuno si teneva i danni suoi né a qualcuno passava per la mente di inventare la parola “ristori” per definire una forma di risarcimento pubblico a carico di uno stato “ristoratore” se non “ristorante”.
Un ricordo personale
Da parte mia rammento che, quando la nostra casa fu lesionata e in alcune parti distrutta, fu mio padre a convocare me e mio fratello con questa argomentazione molto persuasiva: «Ragazzi, qui le scuole sono chiuse o comunque lo sono per voi perché hanno sede nel capoluogo e raggiungerlo è impossibile perché le comunicazioni sono interrotte o sono troppo pericolose. Perciò armatevi di pala e buona volontà e date una mano ai muratori per ricostruire la nostra casa». Che, infatti, fu la prima a tornare visibile sulla piazza principale del paese.
Quello della ricostruzione della casa è un ricordo speciale perché lega il mio ricordo personale ad alcuni mesi di lavoro manuale che mi hanno insegnato più di un ciclo scolastico. Ed ogni volta che mi reco al mio paese mi fa piacere leggere sulla facciata della mia vecchia caso la targa con la data-primato della sua ricostruzione.
Per il Natale 1944 chi scrive aveva soltanto 14 anni e, facendo i conti, è possibile valutare quanto più fresche di oggi fossero le tracce di incisione dei miei ricordi e quanto perciò essi siano rimasti durevoli e tenaci. Tanto da permettermi di consigliare ai quattordicenni di oggi di considerare loro che, tanti anni or sono, altri prima di loro hanno dovuto affrontare ostacoli e difficoltà pari per asprezza di quelli che essi stanno affrontando adesso.
Vivere, per esempio, senza luce, senza gas, senza telefono, senza televisione. Si può immaginare per trarne un insegnamento da trasmettere, quando ne avranno, per figli e nipoti. Un’opportunità che a me non sarà data perché, in materia, il mio compito finisce qui.