La speranza può essere considerata a ragione la grande malata del nostro tempo? Dono o illusione riservata solamente ai credenti? A questa domanda ha cercato di rispondere l’ultima delle tre lezioni introduttive al nuovo anno della Scuola di formazione teologica di San Lazzaro-Castenaso (Bologna), dal titolo «In cosa spera chi non crede?», tenuta il 19 novembre scorso da Salvatore Natoli, professore emerito di filosofia teoretica presso l’università Milano-Bicocca. Salvatore Natoli ha intrattenuto nella sua ricerca un dialogo profondo e intelligente con la ragione cristiana.
L’inizio della riflessione è servito a definire cosa sia la speranza. Sentimento o virtù? Sicuramente la speranza può essere inizialmente definita come un sentimento, un’affezione dell’anima e, come tutti i sentimenti, essa non è sempre positiva. Spinoza descriveva la speranza come una inconstans laetitia, una letizia incostante. Essa nasce da una cosa passata o futura del cui avvenire dubitiamo, tanto che non ci può essere speranza senza paura e timore. Pertanto, la speranza non può essere buona in sé stessa. Essa è, dunque, l’avvenire di cose favorevoli che non cancella però le cose sfavorevoli, è una spinta orientata al futuro che si radica in una spinta che è già presente e antecedente allo stesso presente. Questa spinta – dice Natoli – è il desiderio: la speranza è, infatti, una variante di quest’ultimo.
Speranza umana e speranza biblica
Perché siamo spinti in avanti? Perché c’è un’energia vitale che ci spinge, perché la vita vuole se stessa; speriamo, perché desideriamo la vita. Questo movimento oltrepassa la sconfitta e spinge a ricominciare, perché la vita per sua natura si rinnova e, in questo senso, la speranza si definisce come un sentimento radicato nella voglia di esistere.
Dopo questa prima definizione della speranza naturale, Natoli è passato a rilevare i tratti della speranza così come si trova nella Scrittura. Nella Bibbia, infatti, la speranza non è solo una dinamica naturale degli affetti ma è propriamente la speranza in qualcuno. Essa è legata ad una sicurezza perché c’è un «garante del buon termine», grazie al quale, anche nella delusione, la promessa resta viva. Quindi anche nella sconfitta, avendo fiducia in Dio, si sa che la sconfitta e il fallimento non sono definitivi. La speranza della Scrittura è fondata sulla fede, è la conseguenza di un atto, non è più solo il desiderio di vivere (che ci oltrepassa indipendentemente dalle nostre decisioni): nella Bibbia la speranza è dire sì alla promessa. In questi termini, la speranza è la conseguenza di una scelta e per questo essa diventa una virtù.
Perché si dice sì alla promessa? Perché la promessa è attraente – risponde Natoli –, per cui, anche se è improbabile, vale la pena sperare in essa. Nel Vecchio Testamento questo dire sì nasce nella promessa di una terra (Esodo). Tuttavia, la speranza nella Bibbia funziona ed è mantenuta viva attraverso quello che Natoli chiama meccanismo di differimento. Dio promette la terra, fa uscire dall’Egitto ma chiede al popolo lealtà e fedeltà e la storia biblica – dichiara Natoli – è un gioco tra fedeltà e infedeltà. Gli ebrei non rispettano la legge che causa un rinvio della promessa, però quest’ultima non viene revocata da Dio, ma sempre rinviata.
Questo sistema diventa emblematico e problematico nel cristianesimo, continua Natoli. Il Regno è qui ma la storia è tutt’altro che risolta. Gesù tornerà nella gloria alla fine dei tempi; nel frattempo, i credenti sono chiamati a vivere nell’amore e nella carità.
Nel cristianesimo poi la promessa si fa ancora più attraente, perché la liberazione che promette è quella dal dolore e dalla morte.
Tuttavia, nella speranza nel ritorno del Signore, la fede è messa alla prova e per questo deve diventare ancora più forte.
Verrà il giorno del Signore, ma arriverà come un ladro di notte, irromperà senza nessuna possibilità di essere previsto. Pertanto, la fede dev’essere continuamente rinnovata ed è così che diventa virtù.
Da questo punto di vista, Natoli ha ricordato come, nel cristianesimo, la questione del differimento assuma un ruolo centrale nella storia e nello sviluppo del cristianesimo stesso. «Il tempo del ritardo è stato riempito dalle azioni virtuose. Noi viviamo cristianamente il tempo, la Chiesa ha organizzato un modo per riempire il tempo», dice Natoli. Liturgia e preghiera sono modalità per tenere in vista il ritorno, con il rischio però che tutto questo diventi sostitutivo del ritorno stesso, surrogato dell’attesa (superstitio).
Poi ci sono quelli che la fine del mondo non l’attendono più, continua Natoli: nella secolarizzazione Dio smette di essere il garante della speranza ed è l’uomo stesso a prenderne il posto.
Speranza religiosa e speranza profana
Nella modernità, l’uomo decide di essere il liberatore di sé e delle sue difficoltà, sperando nel proprio continuo miglioramento. L’uomo si mette così a rischio, perché non è detto che questa potenza lo migliori e pertanto è costretto a diventare prudente, sospettoso verso la sua stessa potenza, deve sempre considerare gli effetti secondari delle sue azioni.
Qual è quindi il punto di contatto tra la speranza religiosa e quella profana? Secondo Natoli questa coincidenza si trova nella comune promessa della liberazione dal male. Il ’900 è stato segnato dalla volontà di sradicare il male mettendosi dalla parte dell’innocenza: «il male assoluto non può esistere perché, se l’uomo è finito, è finito anche nel male e quando l’uomo pretende di creare un mondo liberato deve dividere necessariamente l’umanità in buoni e cattivi». I totalitarismi hanno preteso di essere il giudizio finale sulla storia e allora la speranza è diventata delirio, dimenticando la finitezza dell’uomo.
Natoli ha poi sottolineato come, nel mondo attuale, post-cristiano e post-moderno, la situazione è ulteriormente cambiata, perché viviamo in una contrazione del tempo, un appiattimento al presente in cui il soggetto si lascia trascinare dalle convenzione sociali e dalle mode. In questo senso, il soggetto ha smesso di attendere un futuro migliore ma nemmeno si applica nella realizzazione di un progetto capace di migliorare la sua condizione.
Chi sceglie davvero? Chi si chiede “cosa mi realizza veramente?”. In questo senso la speranza di chi non crede – secondo il filosofo – si basa su un presupposto necessario ad ogni azione umana nel mondo e cioè la consapevolezza della propria finitezza. La speranza di chi non crede non è la lunga speranza (come nel cristianesimo) e neanche la presunzione di perfezione (come auspicava il progetto moderno), ma la “praticabilità” al presente in vista di cambiamenti possibili per la realizzazione di un mondo vivibile.
La speranza nasce da un’analisi critica della società e di se stessi, dal valutare le proprie possibilità dialogando con gli altri, perché la liberazione non può mai avvenire nella solitudine. La speranza, allora, diventa azione, cercare di realizzare il bene possibile al meglio, non in un tempo altro – afferma Natoli –, ma facendoci carico della nostra finitezza.
Il laboratorio vero della speranza è dunque la perseveranza, perché nella perseveranza la meta non è lontana né impossibile ma, per raggiungerla, si devono superare alcune difficoltà. Il perseverante apprende dal fallimento e, senza rinunciare alla meta, la ridefinisce. Per fare questo devi avere fiducia in te stesso e fiducia negli altri, dare fiducia agli altri in ogni caso.
In questa visione, il futuro non è più lontano: la misura del futuro diventa ciò in cui bisogna riversare le proprie speranze e cioè le generazioni. Il futuro della generazione dei nostri figli non è illusorio, perché non si può non immaginare per i nostri figli un mondo migliore di quello in cui siamo entrati noi. È dunque fondamentale il legame tra la fiducia (che è diversa dalla fede, sottolinea Natoli) e amore, perché, quando si ama qualcuno che ha futuro, si lavora per il suo futuro.