La filosofa Laura Boella e lo psicanalista Massimo Recalcati, coordinati dalla teologa Isabella Guanzini, hanno partecipato, presso il Pontificio Istituto Teologico Giovanni Paolo II, ad un dibattito pubblico sull’Appello Salvare la Fraternità – Insieme (qui). Di seguito proponiamo la trascrizione dell’intervento di Massimo Recalcati (fatta in base alla registrazione audio-video dell’evento, non rivista dall’Autore, qui).
Buon pomeriggio a tutti e grazie per questo invito. Ho letto con attenzione questo libro che appare, per un verso, come un manifesto, per un altro, come una lettera che ha dei destinatari e ringrazio di avermi incluso tra questi. Peraltro ancora appare come una supplica, che è la forma più radicale della domanda.
E, infine, direi che ha l’aspetto di un grido: c’è qualcosa in questo testo che assomiglia a un grido. E qual è questo grido? Lo direi con le parole di Gilles Deleuze che definisce l’etica in un solo modo possibile: etica significa essere all’altezza di ciò che ci accade. A questo ci spinge questo piccolo testo: siamo noi all’altezza di quello che ci sta accadendo?
Umanismo, una parola problematica
La convocazione degli intellettuali avviene attraverso una parola che vorrei però problematizzare perché è effettivamente molto problematica: è la parola “umanismo”, e oggi è un termine che non gode – diciamo così – di “buona stampa”. Dopo lo strutturalismo, il pensiero contemporaneo è andato nella direzione antiumanistica, a-umanistica.
L’umanismo sembra piuttosto una scoria metafisica come lo intendeva anche Heidegger. Questo libro, secondo me giustamente, a partire dalla lezione cristiana e biblica più in generale, giustamente e con coraggio (direi di non desistere da questa decisione) ripropone il tema dell’umanismo e attorno a questa parola convoca gli intellettuali.
Ma cosa significa rispondere a questa parola? Cosa significa essere oggi all’altezza di questa parola?
Il nostro tempo ha confuso drammaticamente l’umanismo con l’antropocentrismo. L’antropocentrismo è la dimensione delirante dell’umanismo. È il luogo da cui scaturisce la violenza omicida, la sopraffazione dell’uomo sull’uomo, il culto feticistico del denaro, la concezione individualistica solo individualistica della libertà. La degenerazione dell’umanismo in antropocentrismo esige una rettificazione.
Credo sia il primo punto cui noi possiamo dialogare: parlo da laico ma il contributo della lezione cristiana per me è decisivo; resta decisivo sottrarre l’umanismo dalla follia antropocentrica.
La lezione cristiana su questo punto mette al centro la Fratellanza. Se dobbiamo dissociare l’umanismo dell’antropocentrismo, il modo più chiaro e più radicale per farlo introduce la Fratellanza come questione decisiva ed è la tesi che desidero sviluppare.
Il nome radicale della trascendenza
Se vogliamo essere all’altezza di quanto ci accade, dobbiamo riconoscere che la Fratellanza è il nome più radicale della trascendenza. La trascendenza, nell’Appello, viene evocata attraverso il riferimento a Dio: riferimento a Dio e riferimento alla trascendenza. Se perdiamo l’orizzonte della trascendenza, l’umanismo collassa nell’antropocentrismo.
Perché l’umanesimo può non collassare nell’antropocentrismo? Perché noi facciamo esistere qualcosa che è nell’ordine della trascendenza. Ma quando dico qualcosa nell’ordine della trascendenza, da laico, non penso un mondo dietro a questo mondo, ad un altro mondo. Penso a incarnazioni della trascendenza di cui la Fratellanza è il modello più alto.
Il prossimo è un’incarnazione radicale della trascendenza: non il prossimo in quanto simile, ma il prossimo in quanto straniero, il prossimo in quanto nemico.
È il nemico che si tratta di amare, il tema su cui si deve mettere alla prova la Fratellanza. Allora la Fratellanza è una figura della trascendenza. Ma non solo: in questo piccolo testo ci sono altri nomi. Ad esempio la Terra è una figura della trascendenza; la Terra sarebbe il luogo dell’immanenza. In realtà, quando questo libro dice che dobbiamo imparare ad abitare con dignità la Terra, la pone come luogo della trascendenza e ricorda che dobbiamo essere custodi di questa trascendenza più che padroni. La Terra è una grande figura della trascendenza.
Dissociare il nome dal numero
I tempi sono cambiati: la vita, la verità, la morte, sono figure della trascendenza. Il nome proprio è una figura della trascendenza. Abbiamo visto, sempre nell’esperienza del Covid, che il nome è irriducibile al numero, che il nome proprio – come diceva nella sua enciclica papa Francesco – è immensamente sacro. C’è qualcosa di immensamente sacro nella dimensione in-sacrificabile della singolarità.
Dissociare il nome dal numero è l’operazione che contrasta l’avanzata nichilistica dello scientismo, dell’economicismo e del culto feticistico del denaro che viene evocato nel testo dell’Appello. Sono tutti fenomeni dove il numero cancella il nome, sovrasta il nome, diventiamo noi stessi numeri.
È peraltro una lezione della psicoanalisi come pratica di cura (perché non mi sento tanto un intellettuale mi sento una persona che prova a curare le altre persone e questo è il mio mestiere). Uno degli insegnamenti cardine della pratica della cura consiste nel fatto che dobbiamo preservare l’eterogeneità tra il nome e il numero, perché la cura è solo cura per il nome.
Lacan lo dice in una formula luminosa e, secondo me, molto cristiana quando afferma che l’amore è sempre amore per il nome. Non è amore per la vita in generale; l’amore per la vita in generale suscita sospetti. L’amore è sempre amore per il nome proprio, per quel corpo, per quella presenza, per quella storia.
Testimoniare la verità
E qui si inserisce un altro aspetto: come rendere credibile questo Appello? Come possiamo rendere davvero credibile e non retorico questo Appello? È il punto centrale, al di là dei contenuti che condivido profondamente.
Non ci sono scorciatoie: l’unico modo per rendere credibile l’appello è testimoniarne la verità. Ci possiamo riempire la bocca con la parola Fratellanza ma, se non si pratica la Fratellanza, se si pratica l’odio, l’invidia, la lotta fratricida dentro e fuori le nostre istituzioni, non rendiamo credibile il testo.
È il problema che pongo in generale rispetto la grande questione del Padre. Oggi non siamo più in una società religiosa e il testo lo dice a chiare lettere; non siamo più nel tempo in cui esistevano le società religiose, siamo in un altro tempo. Allora, se non siamo più in una società cosiddetta religiosa, il Padre non può essere un orizzonte trascendentale. Deve essere una testimonianza.
Il nome del Padre si dissolve nell’atto della sua testimonianza. Bisogna ripensarlo, come sta facendo a mio avviso il magistero di Francesco fin dall’inizio, ponendo il problema del Padre (come direbbe il giovane Marx con Engels) a partire dai piedi. Non più la gloria del nome ma l’atto della testimonianza che fa esistere qualcosa come una significazione paterna che è decisiva per dare senso alla vita. Lacan lo diceva a suo modo, anche ironizzando. Ma in realtà quando negli anni Settanta parlava del trionfo futuro della religione, lo diceva ironicamente. A mio avviso pronosticava se non il trionfo, la necessità del discorso religioso: di fronte alla montata nichilistica dello scientismo e della tecnica, della violenza omicida, il discorso religioso custodisce la dimensione del senso. Senza, la vita si disumanizza.
Diversamente da Freud che pronosticava la vita breve della religione, destinata ad essere dissolta dall’avanzata della scienza, Lacan sostiene che non sarà così perché avremo sempre bisogno di custodire il senso che rende appunto umana la vita.
Se ci pensiamo, l’esperienza della Fratellanza l’abbiamo vissuta sotto Covid. Abbiamo fatto finalmente esperienza della Fratellanza.
La Fratellanza è una dimensione del legame che trascende la dimensione dell’io. Lacan descriveva la centralità dell’io nel tempo contemporaneo come una “io-crazia”. La Fratellanza è il nome di una decostruzione possibile della “io-crazia”. Cosa ci ha insegnato il magistero del Covid? Ad esempio, che le istituzioni sono uno dei nomi della Fratellanza. A mio avviso, se posso offrire un suggerimento, questo sulle istituzioni è un capitolo che manca nel libro.
L’istituzione necessaria
La Fratellanza significa ripensare le istituzioni: cosa saremmo stati noi tutti sotto Covid senza l’esistenza delle istituzioni? Saremo stati spazzati via come tappi di sughero; poi si può criticare l’operato di un governo, o si può discutere di come sia state gestita la crisi. Però senza le istituzioni, prima fra tutte la famiglia, senza le famiglie noi saremmo stati spazzati via, letteralmente. Quindi c’è la necessità di ripensare le istituzioni.
Ma occorre oltrepassare un pregiudizio drammatico che ha egemonizzato la storia civile del nostro paese e non solo del nostro paese. Il pregiudizio populistico che ha contrapposto la vita alle istituzioni, secondo cui da una parte ci sarebbe la vita, la sua innocenza, la sua purezza e dall’altra parte il marcio delle istituzioni, la loro corruzione, è che il compito della vita è entrare in una relazione antagonistica con l’istituzione.
Pensiero folle, un altro delirio del nostro tempo. La vita senza le istituzioni non esiste semplicemente. Pasolini, che a suo modo è stato un radicale avversario critico delle istituzioni, diceva (cito da “Trasumanar e Organizzar”) che le istituzioni stesse portano in sé qualcosa di commovente e di misterioso. Le istituzioni – aggiungeva Pasolini – realizzano il miracolo più grande: rendono possibile la vita insieme. Quindi – è un consiglio per gli estensori del Manifesto – si potrebbe aggiungere un capitolo sulla poetica delle istituzioni, pensare che c’è una poetica delle istituzioni che ci aspetta, senza la quale siamo ‘spacciati’.
Il non tutto
La Fratellanza è anche esperienza del ‘non tutto’. Uso una categoria centrale nel pensiero di Lacan. La Fratellanza è un’esperienza del ‘non tutto’, esperienza che Caino non sopporta. Caino non sopporta l’esperienza l’intruso, il figlio aggiunto, non sopporta Abele perché gli ricorda che lui non è tutto. Ecco perché i fratelli sono benedetti, perché ci ricordano che noi non siamo tutto. Ecco perché – aggiungo – il fratello è un nome del Padre: ci ricorda che non siamo tutto. Il ‘non tutto’ non è una dimensione afflittiva di demoralizzazione; il ‘non tutto’ è la condizione per essere autenticamente liberi e generativi.
Il testo biblico non è retorico: quando parla di fratellanza, parla dei fallimenti della Fratellanza. Innanzitutto Caino e Abele, poi Giacobbe, Esaù, Giuseppe e i suoi fratelli, la parabola lucana del figliol prodigo, Giuda e Pietro. La Fratellanza ha innanzitutto la forma di una difficoltà. Non c’è nessuna retorica, nessuna celebrazione del noi a partire proprio dal testo biblico.
Figuriamoci se non lo sa la psicanalisi: l’odio è più antico dell’amore, dice Freud. L’ebreo Freud che conosce molto bene la Torah, sa che l’odio viene prima dell’amore, perché lo straniero rappresenta il mondo, rappresenta una fonte ingovernabile di perturbazioni e rispetto al mondo, noi entriamo in un rapporto di difesa organizzata. È un aspetto molto importante.
Il ‘non tutto’ è un’esperienza difficile, perché la spinta dell’umano – e anche su questo il logos biblico è molto chiaro – la spinta perversa dell’umano è nella sua deificazione. Un nome della Fratellanza che oggi dovremmo mettere il gioco radicalmente è l’amore per l’aperto. La Fratellanza è un’esperienza dell’apertura, è un’ esperienza dell’incontro.
Ma quando diciamo oggi che la Fratellanza, come figura della trascendenza, è un’esperienza dell’aperto, stiamo dicendo che siamo di fronte a una spinta del nostro tempo che non è più quella della globalizzazione, della liberalizzazione, della affermazione di una concezione individualistica della libertà.
Il muro
Il nostro tempo ha come simbolo dominante, prima del Covid, l’esperienza del muro. Trump vince le elezioni su questo simbolo, la Brexit è un’esperienza di frattura del legame, nell’Europa orientale non parliamone: il filo spinato, il cemento armato, il muro, il fascio, il porto chiuso, sono diventati simboli mostruosi della contemporaneità anti-fratellanza.
E la pulsione a chiudere la conoscevano bene Freud, Reich, Fromm e gli altri della scuola di Francoforte che hanno studiato con attenzione la psicologia del fascismo. Sapevano bene che la funzione a chiudere non è solo l’effetto di un analfabetismo politico o di una barbarie: piuttosto fa parte dell’umano.
Reich lo pone come un grande quesito all’inizio della Psicologia di massa del fascismo: il problema non è perché le masse abbiano accettato passivamente il fascismo, perché non abbiano reagito nei confronti della dittatura. Il vero problema, dice Reich, è perché le masse abbiano potuto desiderare il fascismo cioè desiderare la vita chiusa.
Penso sia un vettore che attraverso il nostro tempo: la paura della vita. Lo dico come clinico: anche noi vediamo sempre più giovani – usiamo l’espressione clinica di fobie sociali – che si ritirano dal mondo, si ritirano dalla vita, hanno paura della vita. Gli hikikomori sono il paradigma.
Nella lingua giapponese vuol dire proprio chi si pone fuori dalla vita, chi si pone fuori dalla scena del mondo, nella pulsione securitaria che caratterizza il nostro tempo. Dove il problema della sicurezza della vita, vale più della vita. Non posso non ricordare la parabola dei talenti che Sequeri commenta magistralmente (in Timore di Dio, uno dei suoi libri più belli che per me è stato un incontro speciale) quando dice che quell’uomo sotterra il talento perché ha paura della vita, perché ha paura dell’incontro con la vita.
L’aperto
Lo considero questo un grande tema del nostro tempo che l’esperienza del Covid non farà che rafforzare. Già i miei colleghi parlano di una sindrome post-traumatica di adattamento che vediamo diffondersi a macchia d’olio, cioè la difficoltà di reinserimento sociale e quindi di reinserimento nel legame sociale dopo l’esperienza traumatica che ci ha costretti al distanziamento.
Il distanziamento non è solo una misura sanitaria protettiva, necessaria, ma è una spinta interna all’umano: l’essere umano non aspira solo alla libertà ma aspira anche a rifiutare la libertà, a vivere la libertà come un peso a rigettare l’esperienza dell’aperto.
Ma la Fratellanza è un nome dell’aperto. Penso che è un nostro compito, parlo di chi lavora come me nell’ambito della cura, ma è un compito più generale, di ritornare all’aperto. Non avere paura della vita per me è un nome della Fratellanza. Grazie.
- In collaborazione con l’Ufficio stampa della Pontificia Accademia per la Vita.