Riparto da Esiodo e dalla sua Pandora, la donna creata da Efesto mescolando terra con acqua – natura e vigore umano, aspetto di dea immortale.
Ritorno a Pandora, tutta-dono, tutti-i-doni: Atena le insegna l’arte della tessitura, Afrodite le dona bellezza, grazia e passione, Peitò – Persuasione – l’adorna di collane d’oro. Ermes, infine, le infonde sfacciataggine e volubilità e, con l’arte della parola, anche quella di confezionare menzogne.
È la donna – ça va sans dire. Se avevamo dubbi sulla radice misogina della cultura greca, basta tornare agli antichi poemi esiodei della Teogonia e delle Opere e giorni per sentire risuonare con forza l’eco del grido di difesa dell’Adamo biblico: «La donna che tu mi hai messo accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato!».
Come per Adamo, anche per Esiodo la donna non è altro che male, sciagura, inganno: kakòn, pèma, dolon. Non c’è scampo. Poco importa che questo malanno sia uno “splendido malanno”, un kalòn kakòn: anche la bellezza e lo splendore fanno parte dell’irrimediabilità dell’inganno.
Da Pandora discende la stirpe delle donne – stirpe funesta, esperta di opere malvagie, artefice di opere moleste, sciagura grande per i mortali. Pesano, eccome, le parole di Esiodo.
Epimeteo e Prometeo
Nel doppio si racchiude l’essenza dell’umano. Abbiamo un bell’impegnarci a cercare confini definiti, a separare, distinguere, dis-cernere. L’umano, e il reale tutto, è un impasto vivo di ambiguità: la luce del giorno diventa crepuscolo prima di farsi notte, il buono e il cattivo si aggrovigliano e mescolano in ciascuno di noi.
Le figure del doppio che costellano i racconti del mito cercano di spiegare questa ambivalenza costitutiva portando ad immagine il prodigioso duello tra vita e morte sotteso ad ogni esperienza esistenziale.
Ecco allora Pro-meteo e il suo doppio, il fratello Epi-meteo, entrambi eroi della Mètis, cioè di una Sapienza che non si contenta della razionalità ideale del logos: a fronte della astrattezza di Logos, Mètis è la Sapienza capace di accogliere e risolvere i dati di realtà, piegandoli con intelligenza e intuito a proprio vantaggio.
Dietro le spalle dei due fratelli, Prometeo ed Epimeteo, brilla lo sguardo astuto di Odisseo, il polymetis per eccellenza, l’ingannatore ricco di mètis. Ma se Pro-meteo è il Previdente, colui che si serve della mètis, della sua intelligenza, per allungare lo sguardo e anticipare nella visione ciò che accadrà in futuro, Epi-meteo limita l’uso di mètis al contingente e dal contingente viene schiacciato, come ben dimostra il prosieguo della storia di Pandora.
A condanna del genere umano tralignatore, Zeus invia ai mortali il grande, splendido malanno: Pandora, la donna. Prometeo, il Previdente, può ben consigliare il fratello di non accogliere nessun dono divino: Epimeteo, ammaliato dalla bellezza muliebre, prende Pandora come sposa e… le conseguenze son tutte qua da vedere.
Prima d’allora le stirpi degli uomini vivevano prive di malanni e di malattie, libere dalla morte e dalla fatica del pesante lavoro; poi, secondo l’ammonimento rivolto anche ad Adamo nel famoso passo di Genesi («Con il sudore del tuo volto mangerai il pane, finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai»), per colpa di Pandora gli uomini si trovano a sperimentare la malattia, la vecchiaia, la finitezza, la morte: Pandora toglie il coperchio al grande vaso in cui Zeus aveva pressato malanni, sciagure e malattie, e così dolorosi affanni si riversano sugli uomini e la terra e il mare si riempiono di mali.
Spes ultima dea
Il vaso di Pandora come l’albero della conoscenza del bene e del male posto nel cuore di Eden, e la curiositas, il desiderio di conoscenza, di una soggettualità femminile come spinta propulsiva che mette in moto la storia – una storia che, dopo quel gesto di-rompente, non può più girare su sé stessa in un presente eterno e idilliaco, ma sperimenta il divenire della temporalità in tutta la sua fragilità e precarietà: nel vaso è riposto ciò che iscrive l’umano nella dimensione della finitudine e della mortalità, il retaggio comune e condiviso che non conosce privilegi o distinzioni.
Pandora solleva il coperchio e tutto ciò che pertiene alla dimensione del finito si disperde nel mondo; poi, però, riesce a rimettere il coperchio, e sola, lì dentro, in quella dimora infrangibile, sotto l’orlo del vaso, restò la Speranza.
La Speranza, Elpìs, appartiene all’orizzonte della temporalità e della finitezza, eppure, sembra dirci questo antico mito, non è di tutti, non è per tutti.
L’apertura del vaso ha fatto degli uomini, anthropoi, dei mortali, thnetòi: è l’esperienza del limite, fondamento gnoseologico, etico, politico e metafisico di ogni pensare e di ogni sentire greco.
Anche Elpìs, la Spes latina, ha a che fare con la consapevolezza del limite: in Elpìs agisce la radice indoeuropea *wel-, che indica la vista, l’intuito, la prescienza; Spes germina dalla stessa radice di spatium. Speranza è, dunque, lo sguardo lungo che non si consuma in un presente circoscritto e coatto, ma osa dispiegarsi e lambire l’oltre del passato e del futuro.
Ma non è da tutti, sperare. Elpìs è rimasta dentro il vaso infrangibile, proprio lì, sotto l’orlo, sotto il coperchio ben chiuso.
Voce del verbo sperare
La parola “speranza” è una di quelle parole con cui il nostro tempo fa fatica a fare i conti. Non è una parola a buon mercato. È una parola ispida. Tenerla in mano o nella bocca, ruminarla, chiede esercizio e visione. Non si dà speranza senza uno sguardo prospettico e lo sguardo prospettico dice di una postura eretta, che non indulge a ripiegamenti su di sé, alla paura, al cinismo, all’indifferenza.
La vita non è un idillio, e se è vero che “cuor contento il ciel l’aiuta”, a volte mantenere il cuore contento è una quotidiana, laboriosa fatica. Sperare ha a che fare con questo esercizio quotidiano. Ritornare al vaso di Pandora e riprendere in mano Elpìs, custodirla e farla propria.
Chissà perché ne hanno scritto e parlato tanto male, di Pandora, così come di Eva, madre e sorella, archetipo del femminile che, generando l’umanità alla finitezza, non ha sperperato la speranza, ma l’ha tenuta in serbo e custodita per chi desidera imparare a coltivarla.
A proposito di misoginia, la chiesa cattolica e le cosiddette “sacre scritture” ne sono intrise: il mito di Eva e l’esclusione delle donne dal sacerdozio ne sono due esempi chiarissimi.
Sempre commovente e nello stesso tempo affascinante questo mito di Pandora: nel suo gesto disobbediente sta il dono del vivere, in bilico fra disperazione e speranza.
Lì dentro ci sono lo stimolo, la creatività e la fantasia dell’agire.
La parola speranza scava dentro l’anima di tutti un abisso che siamo indotti a percorrere, chiamati forse proprio dal desiderio di trovare Dio.
Grazie