Manca poco alla seconda parte della COP 15, la quindicesima Conferenza delle Parti della «Convenzione sulla Diversità Biologica», che si terrà dal 7 al 19 dicembre a Montreal. Sarà l’incontro conclusivo per definire il piano strategico globale per il prossimo decennio, il post-2020 global biodiversity framework, una serie di obiettivi specifici e misurabili da raggiungere entro il 2030 per fermare la perdita di biodiversità in atto e tutelare le specie e i servizi ecosistemici che forniscono.
Idealmente l’adozione di questo piano ci dovrebbe traghettare verso un 2050 in cui «la biodiversità è valorizzata, conservata, ripristinata e usata con saggezza, preservando i servizi ecosistemici, sostenendo un pianeta in salute e i benefici essenziali per tutte le persone», citando le parole della convezione sulla diversità biologica.
Scarsi progressi
Fino ad oggi, sono pochi i progressi reali fatti per la tutela della biodiversità: sfogliando il report Global Outlook on Biodiversity 5 si vede chiaramente che nessuno dei 20 target prefissati per la decade 2010-2020 è stato interamente raggiunto. Qualche progresso c’è stato, ma si tratta più di work in progress che di reali passi avanti.
Tra gli obiettivi interamente mancati, dove non solo non si sono ottenuti risultati, ma la situazione è in netto peggioramento, spicca la perdita e frammentazione di habitat, una delle cause principali di perdita di biodiversità.
Un articolo pubblicato lo scorso aprile su Nature Scientific data mappa l’evoluzione dell’impronta umana sul pianeta dal 2000 al 2018, confermando una pressione antropica in rapida crescita: in diciotto anni oltre 2 milioni di chilometri quadrati di aree naturali intatte sono state convertite in aree a intenso sfruttamento umano, in particolare nelle zone che stanno cambiando le loro economie e si stanno industrializzando sempre più, come la Cina. Di conseguenza, la maggior parte dei biomi (in particolare foreste tropicali, mangrovieti, ma anche la tundra) è invece in sofferenza e in rapido declino, come si può osservare nelle mappe messe a disposizione dalla Wildlife Conservation Society.
Segnali preoccupanti e incoraggianti
Il percorso per la definizione del nuovo piano operativo per la biodiversità è lungo e articolato in quattro tappe. La prima parte della COP si è tenuta nel 2021, on line, mentre nel 2022 ci sono state due sessioni di lavoro per l’avanzamento del post-2020 Gobal biodiversity framework.
L’approccio per la definizione della strategia mira a essere partecipativo e inclusivo di minoranze e portatori di interesse. La sensazione è però che ci sia un certo stallo e difficoltà di avanzamento delle negoziazioni, in particolare la mancanza di adeguati finanziamenti alle Nazioni più povere, e l’assenza di reali intenzioni di cambiare le modalità attuali di sfruttamento degli ecosistemi, quali la deforestazione, gli allevamenti intensivi e l’uso massiccio di pesticidi.
La conclusione del meeting dello scorso giugno a Nairobi ha lasciato molti biologi che si occupano di conservazione con l’amaro in bocca e la preoccupazione che non si riesca ad arrivare a un accordo efficace a fine anno a Montreal come previsto.
Un segnale molto incoraggiante arriva invece dalla Germania, che il 20 settembre a New York, in un summit che vedeva riuniti politici, aziende, ONG e gruppi per i diritti dei popoli indigeni, ha dichiarato di aumentare il contributo finanziario a favore della biodiversità internazionale a 1,5 miliardi di euro l’anno (0,87 miliardi in più rispetto al passato).
In generale, l’Unione Europea ha in programma di aumentare i fondi dedicati alla biodiversità sia a scala europea che internazionale, come indicato nell’European Green Deal. Altro passo avanti è il costante aumento degli Stati (ormai più di 100) che si impegnano a lavorare per arrivare alla tutela del 30% di oceani e terre emerse, goal ritenuto dagli esperti di conservazione come indispensabile (attualmente siamo al 17% degli ecosistemi terrestri e 8% dei mari).
Clima e biodiversità
Il declino della biodiversità è tangibile e in corso. Qualcuno la chiama sesta estinzione di massa, altri scienziati usano toni più cauti. Sta di fatto che secondo il report dell’IPBES (l’equivalente dell’ormai nota IPCC che si occupa di biodiversità) sono 1 milione le specie a rischio di estinzione.
Il problema, per le faccende naturali, è che è tutto collegato da piccolissime e intricate reti di relazioni. Così, se può a molti apparire insignificante la perdita di un animale, una pianta o un fungo, è perché si guarda al dito e non alla luna. La perdita di una specie genera un inceppamento di una rete di ingranaggi, con effetti a cascata imprevedibili. I più sensibili alla trasformazione umana degli ambienti periscono. Altri si adattano e aumentano. Molto spesso chi aumenta è poi considerato specie nociva, in alcuni casi a ragione, si pensi all’aumento delle zanzare e delle infezioni malariche dovuto alla deforestazione.
La COP 15 si terrà solo poche settimane dopo il termine della COP 27, la conferenza delle parti sul clima, ospitata a novembre in Egitto. La crisi della biodiversità fatica ancor di più dei cambiamenti climatici a entrare nelle agende politiche, e anche a destare il necessario interesse nel pubblico.
Ma clima e biodiversità sono legati in modo indistricabile, si influenzano a vicenda e sono vittime dello stesso perverso meccanismo messo in piedi dalle azioni umane, una crescita continua e smisurata, un progresso costante ma estremamente miope che non riesce a vedere le conseguenze di una ingordigia generalizzata. Continuare a vivere come stiamo facendo, non fa che allontanarci dall’obiettivo di una vita in armonia con la natura.
Eppure la biodiversità ci garantisce il funzionamento del mondo che conosciamo. La visione del futuro dovrebbe essere quella di incorporare nelle politiche un modello di transizione verso un utilizzo sostenibile delle risorse naturali, che le preservi per le generazioni future. Non a caso la conservazione della biodiversità è strettamente connessa agli obiettivi dell’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile.
Cresce sempre più la consapevolezza che l’obiettivo di tutela si può raggiungere con un coinvolgimento effettivo delle comunità locali. Come dimostra un’analisi dei programmi di conservazione portati avanti dal 1945 al 2019, i progetti affidati alle comunità locali portano al duplice obiettivo di tutela della biodiversità e del benessere delle persone, e hanno una percentuale di successo molto maggiore dei programmi imposti dall’alto. In fondo, la chiave sta nelle parole di Aldo Leopold, uno dei padri della biologia della conservazione: «un’etica della terra cambia il ruolo di Homo sapiens: da conquistatore del pianeta a suo semplice membro e cittadino».
- Scienza in rete, 9 ottobre 2022.