La risposta è stata corale, massiccia. In 25.000 a Locri e circa mezzo milione in 4.000 comuni italiani hanno manifestato contro le mafie, accogliendo l’invito di Libera. L’episodio che ha contrassegnato le tre Giornate di Libera sono state alcune scritte, apparse nella notte tra domenica 19 marzo e il lunedì successivo, anche sui muri adiacenti l’arcivescovado di Locri: «Don Ciotti sbirro e il sindaco ancor più sbirro», «Don Ciotti sbirro», «Più lavoro meno sbirri»…
Più lavoro sì, ma…
Proprio quest’ultima scritta ha provocato le maggiori reazioni. Se è vero – ricordava il vescovo di Locri Francesco Oliva – che, nella Locride in particolare, il lavoro «è più il privilegio di alcuni che non un diritto riconosciuto a tutti», non per questo si può accettare «che sia la ’ndrangheta a regolare la vita sociale e a dare occupazione a chi vuole» e che qualcuno debba essere costretto «a ricorrere al caporale o al boss di turno per veder soddisfatto un tale diritto». C’è bisogno di «un lavoro onesto, che non tolga la dignità e non nasca dalla sottomissione», mentre invece «la criminalità crea solo lavoro nero e disonesto». E una nota diramata da Libera diceva: «Siamo i primi, da sempre, a dire che il lavoro è necessario, anzi che è il primo antidoto alle mafie. Ma che sia un lavoro onesto, tutelato dai diritti, non certo quello procurato dalle organizzazioni criminali». Il presidente, Sergio Mattarella, incontrando a Locri domenica 19 marzo i familiari delle vittime di mafia, chiedeva, come antidoto alla malavita organizzata, «un tessuto sociale più solido, attraverso l’effettiva possibilità di lavoro e il buon livello dei servizi sociali e sanitari».
Che poi sia la mafia a dare lavoro, mentre Chiesa e Stato se ne starebbero inerti, lo smentiscono sia lo Stato nella persona del procuratore distrettuale di Reggio Calabria, Federico Cafiero De Raho («È la ’ndrangheta a far fuggire le imprese che il lavoro lo danno e ostacola lo sviluppo in maniera ignorante»), sia mons. Oliva: «La ’ndrangheta è morte per la nostra terra, la causa principale del nostro sottosviluppo».
Per don Ciotti e per il sindaco di Locri è stata usata la parola “sbirro”. Il suo significato nelle terre in cui sono radicate la mentalità e la prassi mafiosa – ricorda Carlo Macrì sul Corriere della Sera – è quello di essere «un tenace oppositore della criminalità organizzata». Ecco perché ieri, ultima della tre Giornate di Libera, don Ciotti ha dichiarato: «Oggi siamo tutti sbirri e calabresi», a indicare la volontà di proseguire sul cammino della legalità contro ogni intimidazione.
Per l’impegno profuso contro mafie, collusioni, corruzioni e illegalità – secondo il procuratore distrettuale, che ha parlato di «potere marcio» e di «cupola massonicomafiosa deviata» – lo Stato e la Chiesa danno fastidio come mai prima. Ancora di più – ha aggiunto – quando si alleano con le istituzioni locali.
Nessuno abbasserà la guardia. «Facciamo obiezione di coscienza di fronte a qualunque progetto di morte e alla mentalità mafiosa, prepotente e arrogante», ha fatto scrivere il vescovo Oliva nel manifesto che annunciava la 22ª Giornata della memoria.
«Orgogliosamente sbirri per il cambiamento» hanno scritto in un grande manifesto il sindaco e la giunta.
E don Ciotti: «È con questa Calabria viva, positiva, che costruiamo, trovando in tante persone, soprattutto nei giovani, una risposta straordinaria, una straordinaria voglia di riscatto e di cambiamento». E ricordando che «la lotta alle mafie non è opera di navigatori solitari ma del “noi”».
La Chiesa c’è
Ieri sono stati scanditi in tante piazze d’Italia i nomi dei 950 (125 i bambini) morti ammazzati dalla malavita organizzata. Ma la lotta deve continuare assidua, perché – come diceva domenica il presidente Mattarella – bisogna diradare quella indistinta «zona grigia» dove si annidano pericolose collusioni e alleanze. «Non ci sarà futuro prossimo per questa terra, finché i mammasantissima troveranno sponde politiche, imprenditoriali e istituzionali» scriveva su Repubblica Giovanni Tizian, al quale proprio a Locri hanno ammazzato il padre.
Su questo ultimo punto illuminante l’analisi del procuratore di Catanzaro, Nicola Gratteri, che ha speso una vita contro le ’ndrine. Rispondendo alle domande di Liana Milella (Repubblica, 21 marzo) ammoniva che «la ’ndrangheta doc si è sempre inabissata, ha cercato di intrufolarsi nel sistema legale con i suoi uomini, inserendoli nel circuito dell’antimafia, come fa Cosa nostra da decenni…, vogliono rendersi invisibili… La ’ndrangheta non è come la camorra che spara per qualche bustina di droga… La ’ndrangheta è entrata mani e piedi nelle stanze della pubblica amministrazione grazie a una politica collusa e compiacente, con un interscambio fortissimo di voti in cambio di appalti, posti, contributi regionali ed europei».
Ieri, giornata conclusiva, don Luigi Ciotti nel suo discorso («Siamo qui perché abbiamo un debito con chi è stato assassinato. Vanno fatti vivere nel nostro impegno. Dobbiamo essere più vivi noi») ha ringraziato per la loro partecipazioni i vescovi della Calabria, anch’essi fortemente esposti nella lotta all’illegalità.
«La Chiesa c’è – ha dichiarato il vescovo di Cassano allo Jonio, Francesco Savino –, noi ci siamo, ci mettiamo la faccia, il cuore, l’intelligenza, la passione… La memoria delle vittime delle mafie deve graffiare la nostra coscienza». E il vescovo di Rossano-Cariati, Giuseppe Satriano, ha richiamato «a una maggiore responsabilità civile ed ecclesiale» e ad «un impegno trasversale dalla Chiesa alla società civile».
Ieri era il 21 marzo, inizio di primavera. A molti commentatori non è sfuggita questa coincidenza. Citiamo per tutte quella di Antonio Maria Mira (cf. Avvenire, 21 marzo): «Oggi, 21 marzo, primo giorno di primavera, quando dal seme che muore nasce il fiore, anche nei terreni più aridi». Un buon auspicio, davvero.