Vorrei parlare – se lo consente il direttore di SettimanaNews – di un dibattito che svolgo molto spesso con un sacerdote gesuita a proposito di Twitter.
Prima di tutto spiego chi siamo noi due interlocutori. Io mi occupo della comunicazione della Pontificia accademia per la vita e, in questa veste, ho anche la responsabilità dei social: il canale YouTube, le pagine Facebook, Twitter. Il religioso di cui parlo e con cui mi confronto si potrebbe definire un gesuita “di una volta”: solida formazione, raffinato humor all’inglese, grande capacità di andare al sodo delle problematiche, unita a prudenza e capacità di discernimento.
In breve: lui non è d’accordo con la modalità di comunicazione che si realizza via Twitter. La trova non solo inutile ma dannosa. In quanto sono i presupposti stessi della comunicazione via Twitter ad essere erronei e perfino dannosi. Diventa per forza di cose una modalità superficiale, che non consente spiegazione e, tanto meno, approfondimento; è ontologicamente erronea: genera idee sbagliate, semplifica e fa sembrare semplici realtà molto complesse; non aiuta a pensare ma procede per slogan il più delle volte massimalisti.
È facile criticare tutto e tutti, buttare lì affermazioni impossibili da confutare. Twitter diventa l’epifenomeno della fake news, l’iceberg di una società (e di una Chiesa, a questo punto) dedicata ad apparire. In qualsiasi modo, purché si appaia.
Ha ragione? Ha torto?
Quando twitto scuote la testa sconsolato, come a dire: ecco qui, un’altra volta ancora siamo in pasto al massimalismo andante.
L’ultima volta che ne abbiamo parlato, ho provato a dire che, sebbene le sue critiche siano comprensibili e condivisibili, pure esiste una maniera etica di comunicare, perfino via Twitter. Intendevo riferirmi, ad esempio, ad un tweet di quella mattina in cui, su un argomento complesso e arduo – di natura scientifica – e destinato a provocare dibattito (il solito dibattito via Twitter, ovviamente, di affermazioni generiche del tipo chiunque ha qualcosa da gettare lì lo fa…), ebbene proprio per evitare quel genere di reazioni avevo inserito il link all’articolo collegato al tema in questione.
E sostenevo che l’eticità della comunicazione consistesse esattamente in quello: il link, in modo tale che un follower interessato avesse a disposizione la fonte e potesse andarsi a leggere un testo per formarsi un’opinione. Certo, un follower interessato ed onesto; il follower disinteressato e disonesto non lo fa oppure fraintende a bella posta. Ma accade non solo su Twitter, bensì ovunque.
Ebbene quale è stata la risposta del gesuita? Una sonora risata e uno scrollare di capo, come a dire: eccolo qua il nostro giornalista senza speranza di cui mai fidarsi del tutto! Altro che “eticità” della comunicazione! È metafisicamente impossibile una qualunque forma di eticità via social!
Eppure sono convinto che esista. Esiste, può esistere, nella misura in cui la comunicazione via Twitter rispecchia una realtà (un Ente vaticano in questo caso, che ha dei contenuti da portare all’attenzione) e promuove una riflessione e/o mette in campo temi. È una comunicazione etica nella misura in cui ci si sforza di “fare rete” con altri su temi delicati come ad esempio le questioni del fine-vita, delle cure palliative, dell’accesso e del diritto alla salute, dei migranti, delle sfide tecnologiche, della qualità della vita e dell’attenzione all’ambiente.
Certo, sono argomenti che si declinano con una comunicazione rapida ed essenziale, che però ha il vantaggio di essere multimediale: un video dei volontari o degli infermieri o dei medici della rete degli hospice del Regno Unito ha un impatto emotivo importante; fa riflettere, arriva dritto e colpisce. E senza Twitter chi mai li potrebbe conoscere e sentire parlare? C’è la possibilità di dialogare con un mondo altrimenti non raggiungibile.
Allo stesso tempo, ci sono centinaia di migliaia di account falsi, o peggio trolls, come nel mondo reale si ha a che fare con persone prevenute e false. Del resto, anche qui, dietro quegli account fasulli ci sono meccanismi reali e tentativi di controllo e interessi economici rilevanti in gioco.
Dunque Twitter è una metafora del mondo reale, ne è espressione e, di fronte ai tantissimi falsi, esistono milioni di persone vere. Altrimenti non raggiungibili – ad esempio – dalla Pontificia accademia per la vita o da altri enti che vogliono diffondere una visione più positiva, meditata, stimolante della realtà.
E con buona pace del gesuita che conosco. Mentre la Chiesa – intesa come realtà dinamica composta di parrocchie, diocesi, conferenze episcopali, strutture centrali – potrebbe e dovrebbe impegnarsi di più e meglio, credendo una buona volta nella comunicazione. E non giudicandola una volta un orpello, altre volte un fastidio.
Se è Spadaro gli dca che a forza di bloccare tutti quanti su Twitter rimarranno solo lui e il Papa…