Paola Bignardi si dedica ai temi dell’educazione, sia in ambito scolastico che sociale ed è pubblicista. Impegnata da anni nell’associazionismo laicale, è stata presidente nazionale dell’Azione cattolica italiana (dal 1999 al 2005), prima e per ora unica donna. Le sue responsabilità le hanno sollecitato un approfondimento dei temi legati alla condizione dei laici cristiani nel mondo e nella Chiesa. Come membro del Comitato di Indirizzo dell’Istituto Toniolo, segue da alcuni anni la realizzazione del Progetto Giovani. Nel 2015 ha curato, insieme a Rita Bichi, la pubblicazione della ricerca, da lei coordinata, Dio a modo mio. I giovani e la fede in Italia (Vita e Pensiero), per la quale sono stati intervistati centocinquanta giovani, ragazze e ragazzi tra i diciannove e i ventinove anni, tutti battezzati, residenti in piccole e grandi località del Nord, Centro e Sud Italia, con diverso titolo di studio. A cinquanta è stato poi chiesto di raccontare diffusamente la loro esperienza di fede e il loro vissuto religioso, rivelando un interessante spaccato di una dimensione intima della vita, delle sue luci e delle sue ombre.
– Dalla vostra ricerca esce un quadro piuttosto interessante del rapporto delle giovani generazioni con la fede. I giovani non sembra abbiano smesso di credere o almeno di desiderarlo come una dimensione bella della vita. Tuttavia è evidente che qualcosa (di profondo) è cambiato. Quali sono le caratteristiche che emergono con maggiore chiarezza circa il nuovo e diverso rapporto dei giovani con la fede?
«Direi che il principale elemento di cambiamento sia rappresentato dal modo soggettivistico con cui i giovani tendono a interpretare la loro esperienza religiosa, benché il campione intervistato nel corso della nostra ricerca abbia ricevuto una formazione catechistica tradizionale. Il Dio verso il quale si orientano i giovani ha un volto piuttosto anonimo e confuso, si mescola con stati d’animo ed emozioni, e tuttavia costituisce il riferimento, in qualche caso occasionale ed estemporaneo in altri più stabile, di una ricerca, di una tensione che non si è per nulla spenta nella coscienza giovanile e che tende ad emergere soprattutto in alcuni momenti critici della vita: una difficoltà, un dolore, lo strappo di una relazione.
La ricerca di Dio non s’incontra con la Chiesa, ma avviene all’esterno di essa e a prescindere da essa. Non è che i giovani abbiano un atteggiamento ostile nei confronti della Chiesa, ma piuttosto di estraneità: si chiedono che cosa c’entri la Chiesa con il loro rapporto con Dio. Emerge anche nell’esperienza religiosa la stessa difficoltà a cogliere il valore dell’istituzione, con la sua oggettività, e a riconoscere il significato delle intermediazioni, non comprese e ritenute superflue non solo a proposito della fede ma di ogni altro aspetto della vita».
– Quali i limiti e quali le potenzialità che si possono segnalare?
«Si tratta di una situazione completamente inedita nella quale è difficile discernere. L’evangelizzazione del mondo giovanile è tutt’altro che impossibile. Vi è in esso una tensione verso la trascendenza che muove una ricerca, spesso confusa, quasi sempre solitaria. L’abbandono dei contesti formativi della comunità cristiana alle soglie dell’adolescenza, quando ancora non si sono accese le grandi domande esistenziali, fa sì che nel momento in cui esse si affacciano i giovani non abbiano di norma al fianco nessuno che si faccia loro compagno di viaggio. Perché questo è fondamentalmente il ruolo dell’educatore alla fede per i giovani: condividere la loro ricerca e sostenerli in un percorso che essi vogliono come loro. Questo è la faccia positiva del loro cammino di fede: è l’itinerario verso una fede personale, percorso arduo e rischioso, ma l’unico vero e autentico. Compiuto in solitudine, esso degenera nel soggettivismo, nel Dio fai da te, costruito su misura. Vi è un grave rischio in questa situazione, che è il dissolversi della Chiesa come comunità storica in cui il mistero di Dio si rivela, si custodisce, si trasmette. Questa situazione ha determinato lo spezzarsi della catena di trasmissione della fede, del suo contenuto oggettivo, della sua esperienza, della sua preghiera, delle sue regole di vita. Non sarà facile recuperare i giovani alla comunicazione con la comunità cristiana, eppure questo è fondamentale per non privare una generazione (o quante generazioni?) della gioia della fede ma anche per garantire un futuro alla Chiesa del nostro contesto occidentale».
– «Velocità» e necessità di un «senso immediato» in ciò che si vive sono richieste che emergono con impressionante frequenza nelle vostre interviste. Penso anche al ricordo quasi unanimemente negativo del percorso di iniziazione (il catechismo), sentito quasi solo come costrizione. Quali domande emergono per la trasmissione della fede nelle nostre comunità? Quali cambiamenti di sensibilità e di linguaggi immagina saranno necessari (penso ai tempi e al simbolismo della liturgia)?
«La velocità è una caratteristica del nostro tempo, per i giovani è un tratto naturale del loro modo di vivere perché sono nati e cresciuti nell’epoca dei tweet. Anche il senso dell’immediatezza fa parte della loro cultura: il web li mette in contatto diretto con chi vogliono quando vogliono, e questo dà un’impronta al modo complessivo del vivere su ogni piano, anche quello religioso. Tuttavia vi è una strada che può raggiungerli: è quella di una relazione che li sappia coinvolgere in un’esperienza di fede che sia esperienza di vita.
Forse è tempo che le nostre pedagogie si semplifichino e si riconducano alla semplicità del Vangelo. Gesù ha fatto precedere l’incontro, il contatto, l’attenzione, l’affetto alla “dottrina” del Regno. È diventato amico e ha costituito un gruppo di amici che poi, pur con le loro resistenze, sono stati con lui. Hanno imparato a vivere come lui perché sono stati a vivere con lui. L’approccio di Gesù ai suoi discepoli è stato un approccio fatto di umanità, di interesse: tutto il resto è venuto dopo, quando in loro era maturato un senso di appartenenza al gruppo che faceva loro accettare anche quello che non capivano.
Alla scuola del Vangelo, andrebbero ripensate le nostre pastorali, liberate finalmente dalle loro preoccupazioni organizzative per recuperare con decisione il senso della persona, della sua storia, del suo percorso. Anche la liturgia può essere non troppo distante se il suo simbolismo viene rigenerato dentro un cammino denso di vita».
– Quali sono i luoghi che oggi potrebbero intercettare il mondo giovanile (scuola, parrocchie, movimenti ecc.)? Mi ha colpito l’esperienza del corso di introduzione alla teologia che tutti gli studenti dell’Università cattolica devono frequentare… e l’importanza del ruolo di un docente che si assume il compito di educatore.
«Per un mondo giovanile mobile come l’attuale sarà sempre più difficile che la parrocchia sia il punto di riferimento formativo, dopo gli anni della fanciullezza e dell’iniziazione cristiana. Penso che l’evangelizzazione dei giovani debba passare per i luoghi della loro vita quotidiana, che sono la scuola, l’università, i gruppi di elezione, non necessariamente religiosi. Non che la scuola debba venir meno alla sua funzione, che non è quella di fare catechismo, ma piuttosto deve permettere ai giovani di incontrare persone significative, disposte al dialogo personale, a farsi compagni di viaggio nella ricerca e nell’inquietudine che essi stanno vivendo. Gli educatori che sono disposti a mettersi in gioco in un dialogo personale e accettano di dedicare tempo alle persone diventano dei punti di riferimento importanti. E possono fare proposte. Sono avvantaggiati se hanno alle spalle delle comunità cristiane di cui possano dire: “Vieni e vedi”, sperimenta cos’è la vita cristiana, vedi come l’umanità viene trasformata dall’incontro con il Vangelo».
– I giovani si sentono al contempo distanti dalla comunità ecclesiale (che non sentono più come comunità dai legami autentici, fraterni, accoglienti), e ammirano quasi all’unanimità papa Francesco. Come sta insieme questa apparente contraddizione? Ci sono altri personaggi ecclesiali che i giovani ammirano?
«I giovani si sentono lontani dalla comunità ecclesiale anche per il carattere anonimo e freddo del clima che si respira in molte di esse. Papa Francesco al contrario è una persona calda, umana, dal gesto semplice e diretto. Nei suoi gesti papa Francesco c’è tutto, è autentico, è se stesso: si direbbe che è libero dal ruolo. E nel suo modo di fare mostra di avere attenzione per le persone: la sua pedagogia è il farsi vicino alla vita concreta delle persone, che sono molto di più di ciò che hanno fatto, anche di male, nella loro vita. C’è un’altra figura che i giovani citano nelle loro testimonianze, benché sia morta quando loro erano ancora bambini: è Madre Teresa, che da certi punti di vista ha lo stesso stile di papa Francesco: le persone prima di tutto, a cominciare dai poveri. E questo principio entrambi l’hanno vissuta e lo vivono concretamente. Questo dà loro credibilità presso i giovani, che li amano e li apprezzano».
– Emerge dalle interviste un’idea di virtù? E di come si immaginano da adulti?
«Le domande delle interviste non orientavano a questi temi, ma piuttosto facevano emergere i valori che i giovani ritengono più importanti: tra questi vi è sicuramente la lealtà, l’autenticità, l’essere capaci di mostrarsi per ciò che si è. Il valore che emerge con il maggior fascino come tratto distintivo del cristianesimo è l’amore, nelle sue diverse declinazioni. Non per nulla la testimonianza ritenuta più affascinante è quella di Madre Teresa».
– Che cosa si aspetta, o cosa auspica che il prossimo Sinodo dei vescovi sui giovani e la fede metta in movimento nella vita delle nostre comunità?
«Mi aspetto che ponga la questione dei giovani al centro della riflessione e delle scelte delle comunità cristiane, non come questione che interessa qualche segmento della pastorale, ma tutta la comunità nel suo insieme: dai giovani passa il futuro non solo in senso anagrafico: passa l’apertura della Chiesa al futuro, la sua disponibilità a rinnovarsi e a camminare con il tempo che cambia. Per far questo le comunità devono mettersi in ascolto dei giovani, devono decidere di non giudicarli. E di fronte alle loro distanze, prima di dire che è colpa dei giovani che sono increduli, dovrebbe farsi un esame di coscienza sulla qualità evangelica della sua esperienza, così come per altro la invita a fare papa Francesco».
Un discorso aperto e chiaro… sull’impegno di una Chiesa vicina a TUTTI, non per ciò che insegna, ma VICINA alla Vita di Ciascuno: da Papa Francesco impariamo umanità, calore, fraternità dettati dall’unico e solo scopo di annunciare il Vangelo, per AMORE. Grazie.