Paolo Cattorini: una teologia del cinema

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Un libro che porta nel titolo la parola “teologia” non si raccomanda facilmente alla maggior parte dei lettori. La teologia di sicuro non gode di buona fama tra il grande pubblico ed evoca ai più riflessioni pedanti su questione astratte e scarsamente comprensibili, in ogni caso molto lontane dai problemi della vita reale. In generale, è lo stesso discorso su Dio a destare sospetti.

Non che manchi in assoluto la possibilità di parlarne, anzi: oggi c’è spazio per un atteggiamento complessivamente indulgente e persino curioso nei confronti delle cose dello spirito. Ma la regola sembra essere quella di tenerle sul piano dell’emozione, del racconto dell’esperienza vissuta, della confidenza fatta a livello personale.

Il lato pubblico

Ognuno, se vuole, può raccontare come si arrangia a rielaborare le proprie paure e le proprie speranze, gli slanci di bene e la domanda sul male; e la gente è anche disposta ad ascoltare. Quando il discorso, però, si pone sul piano pubblico con la pretesa di esprimere ragioni che possano essere fatte valere per tutti, con un approccio più ordinato e rigoroso, subito si ha l’impressione di aver toccato un argomento ostico che costringe i poveri malcapitati a una fuga frettolosa prima di rimanere invischiati in noiose elucubrazioni su temi aridi e polverosi.

Di fatto è difficile non registrare una crescente distanza tra i tentativi ecclesiali di approcciare il discorso religioso e ciò che comunemente viene avvertito dai fedeli come ricco di senso e utile alla ridefinizione dell’identità personale e della propria relazione con Dio e con il prossimo.

L’impaccio che logora questo improbabile dialogo coinvolge tutte le forme della comunicazione ecclesiale, a partire dalla predicazione, dalla catechesi e dalla liturgia: figurarsi se non paralizza quel settore già di nicchia che è il discorso teologico!

Per questo motivo il libro di Paolo Cattorini (Teologia del cinema. Immagini rivelate, narrazioni incarnate, etica della visione, EDB), esperto di temi bioetici, ma anche intelligente e appassionato interprete di cinema, è da salutare con simpatia e con la gratitudine giustamente riservata a chi si avventura su un terreno rischioso ma strategico.

Il titolo e il suo doppio

A dire il vero, il titolo del volume, Teologia del cinema, prevede una doppia interpretazione del genitivo: in senso oggettivo, come tentativo di intraprendere una riflessione di fede sul significato e le peculiarità della settima arte; in senso soggettivo, come aspirazione a parlare di Dio attraverso la realizzazione e la fruizione di film.

Cattorini, pur consapevole della differenza sostanziale dei due approcci, con un po’ di audacia prova a percorrerli entrambi. Non si può dubitare, per altro, del fatto che entrambi meritino di essere percorsi.

Sempre più l’esperienza che tutti noi facciamo della vita è un’esperienza mediata da immagini e filmati. Sappiamo bene che ciò che assorbiamo come spettatori influenza profondamente i nostri comportamenti sociali, i nostri criteri di giudizio, le nostre scelte morali e, ovviamente, le nostre preferenze di acquisto.

Per quanto siamo avvertiti della forza persuasiva dei contenuti multimediali a cui siamo esposti, abbiamo scarsa possibilità di non esserne condizionati. Ma questo è solo uno degli aspetti che descrivono l’impatto dei film o delle serie televisive sulla nostra esistenza. Prima ancora, infatti, il cinema modella le nostre emozioni, trasforma i ritmi delle nostre conversazioni, il modo stesso in cui avvertiamo quanto ci capita e istintivamente costruiamo il racconto della nostra vita personale e pubblica.

Negli ultimi anni, questa pervasività delle immagini si è enormemente intensificato e ciascuno di noi è diventato non più solo fruitore, ma anche creatore di video. Ogni volta che riprendiamo il brindisi che stiamo per fare o il rigore tirato dal nostro bambino o la partenza della vacanza che abbiamo organizzato con gli amici, ci accorgiamo che il nostro modo di essere autori della nostra vita è quello di essere, contemporaneamente o forse persino prima, autori del suo video-racconto.

In questo senso, se parlare di Dio significa in qualche modo parlare anche dell’uomo, oggi, in un mondo in cui l’uomo vive come se fosse dentro un film e come se stesse sempre girando un film, non possiamo non parlare di cinema.

D’altra parte, proprio perché il linguaggio umano si volge con tanta insistenza e, spesso, con tanta cura e persino raffinatezza, al mezzo cinematografico, è certo inevitabile che anche il discorso su Dio debba svolgersi non solo sui libri ma anche sul grande schermo e che lì debba essere intercettato e interpretato.

Vita come narrazione

Cattorini parte nella propria riflessione proprio dal fatto che l’uomo vive raccontandosi. Il racconto presuppone un patto tra chi prende la parola e chi ascolta o, in questo caso, tra autore e spettatore. Ogni patto o ogni alleanza si inscrive dentro un contesto rituale nel quale si entra solo prestando fede a una promessa e impegnandosi in un compito.

La promessa è quella di un senso che il racconto dischiude attraverso la narrazione. Il compito può essere forse esplicitato attraverso una formula presente nel quarto vangelo: «questa è l’opera [di Dio]: che crediate» (Gv 6,29). La disponibilità dello spettatore a sospendere la propria incredulità, cioè a dare credito al racconto che si svolge davanti ai propri occhi, è la condizione perché un senso si riveli.

Scrive giustamente Cattorini: «il patto tra narratore e narratario è già una embrionale forma di opposizione all’assurdo e come tale merita un accostamento alla nozione religiosa di salvezza» (pag. 18). Ma la forza salvifica del racconto non si esaurisce in questa iniziale promessa. Questo non significa che il racconto di per sé stesso abbia la possibilità di produrre un effetto terapeutico sulla persona.

Il racconto però indirizza il soggetto verso la verità e sollecita una sua presa di posizione etica. Non è un caso che la predicazione di Gesù si svolga prevalentemente raccontando parabole piuttosto che impartendo regole.

Il cinema raccoglie il testimone del romanzo o del teatro antico e costruisce narrazioni nelle quali lo spettatore possa entrare per venirne provocato. La «potenza mitopoietica» del cinema sta nella sua eccezionale capacità di sviluppare «pensieri in azione visibile» e di «risucchiare lo spettatore in un evento sinestetico assorbente, rischioso e trasformativo» (pag. 108). La percezione della giustizia di un’azione o della verità di un pensiero non è guadagnata innanzi tutto a livello riflessivo, ma, molto prima, a partire da «indizi estetici» che solo in un secondo tempo chiedono di essere sottoposti alla critica del ragionamento.

Il cinema, come tutta l’arte, permette di pervenire alla verità della vita non nella forma del concetto universale, ma in una modalità che attinge al caso concreto. I grandi miti, le rappresentazioni archetipe mettono in questione il vissuto personale sottoponendolo a una lettura del tutto nuova che nasce dallo sconcerto di una rivelazione altra, di una visione sorprendente e inaggirabile, come un’apparizione divina. Proprio questo capita, anche al cinema, quando un autore si lascia a sua volta conquistare da racconti che lo precedono e a cui egli riesce a dare nuova forza trascrivendoli in un originale e inedito flusso di immagini.

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Il Dio rintracciabile

Fin qui abbiamo seguito, per sommi capi, il percorso attraverso cui Cattorini svolge la bozza di una teologia del cinema secondo il significato soggettivo del genitivo.

Ma il volumetto propone anche due capitoli che costituiscono un assaggio di teologia del cinema intesa come discorso su Dio rintracciabile in specifiche opere filmiche o attraverso l’utilizzo di alcune particolari scelte registiche.

In questo secondo caso, l’analisi verte sul cosiddetto “trascendental style” che accomuna registi come Ozu, Bresson e Dreyer. L’esempio è di particolare interesse perché la dimensione spirituale affiora lontano da tematiche esplicitamente religiose o da trascrizioni di racconti biblici o agiografici. «Nominare Dio, anche quando egli si sottrae alla narrazione.

Questa è la lezione del lento stile trascendentale, che purifica la teologia dall’abuso di metafore antropomorfiche, che si oppone alla venerazione di trame gaudenti a lieto fine, che riporta l’esperienza del sacro a vissuti elementari» (pag. 98).

L’altro capitolo è dedicato alla teodicea, cioè alla questione di Dio di fronte allo scandalo del male. L’Autore passa in rassegna qualche film indicando alcune soluzioni adottate. È chiaro che l’impresa meriterebbe da sola un intero volume a parte, ma questa prima, rapida ricognizione merita di essere apprezzata per la scelta di metodo che Cattorini esplicita in questo modo: «Alla poderosa costruzione “colossal”, agli effetti speciali, al gigantismo magniloquente, agli aneddoti “apocrifi” sentimentali e commoventi, preferiremo la citazione di film che alludono indirettamente al Dio invisibile, rappresentando sugli schermi icone mobili dell’ineffabile» (pag. 48).

La scelta è inconsueta, coraggiosa e particolarmente opportuna. Normalmente, quando si è interessati a tematiche religiose, ci si dedica alla ricerca di film con santi, preti e suore oppure a film inequivocabilmente edificanti, in cui trionfano i buoni sentimenti e le virtù facilmente riconoscibili come cristiane. Non sempre, anzi quasi mai, si tratta di una buona soluzione. L’accostamento al sacro non richiede etichette ecclesiali ed è vanificato da ogni forma di bigottismo.

La lingua della spiritualità è quella che riecheggia le esperienze più universali e attinge a ciò che c’è di comune a tutti. La predicazione di Gesù dovrebbe essere ancora una volta istruttiva: al cuore delle parabole c’è lo stupore per un seme che germoglia e cresce, l’entusiasmo per una ricchezza inaudita nascosta nel campo che possiamo permetterci di comprare, l’ingratitudine di chi è invitato da un ospite di riguardo e si permette di mancare all’appuntamento, la trepidazione di un padre che attende il ritorno di un figlio sciagurato e deve gestirne un altro talmente attaccato ai suoi diritti da essere diventato ormai insensibile all’affetto.

La religione vi compare poco e male. I sacerdoti, se ci sono, fanno brutta figura e sono superati da uno qualsiasi disposto a interrompere il proprio viaggio per occuparsi del malcapitato incontrato lungo la strada. Oggi dovremmo tornare a parlare questa lingua, che è una lingua laica. Dove laica significa semplicemente che è la lingua che parlano tutti, è quella che tutti capiscono.

Fuor di metafora, dovremmo imparare a guardare i film che guardano tutti (se possibile, neppure troppo noiosi) e scoprire che dentro la vita che gli uomini provano a raccontare c’è il desiderio segreto del Regno, l’amore appassionato del Padre, il mistero di un bene che resiste anche alla morte. Come intuisce giustamente Cattorini, sta allo spettatore raccogliere e portare a compimento quello che il regista ha appena cominciato a dire.

L’immagine e lo spirito

La teologia del cinema, in senso soggettivo, deve prevedere questo ruolo dello Spirito senza il quale è impossibile ascoltare il Verbo della Vita e senza il quale il Verbo neppure parla. Dare fiducia allo Spirito significa credere che esso spira ovunque, che è possibile sentirne la voce a patto di non decidere in anticipo da dove venga o dove vada.

La teologia del cinema, in senso oggettivo, sarà ben fatta quando impareremo a scoprire che il nostro tempo, talvolta persino suo malgrado, non può che cantare le meraviglie del Signore.

Se lo fanno i prati e i tramonti, a maggior ragione lo fa l’opera dell’uomo, anche quella cinematografica che oggi sembra tra quelle a cui egli si dedica con maggiore impegno.

In anni ormai lontani non era inconsueto che nei complessi parrocchiali dei nostri paesi, accanto alla chiesa, sorgesse la sala del cinema. L’intuizione pastorale era buona. Oggi, certo, gli spazi dell’entertainment sono cambiati. Per molti è più frequente guardare una serie TV sul proprio smartphone che un film sul grande schermo.

Tuttavia, più ancora che in passato, non possiamo permetterci di rimanere indifferenti, per supponenza o distrazione, alle forme con cui si vive e si racconta la vita, il suo dramma e la sua verità. Benvenuto quindi al libro di Paolo Cattorini, nella speranza che molti altri, sollecitati, lo possano seguire.

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