Nella mattinata di sabato 30 settembre, alla presenza della famiglia, è stato inaugurato a Bologna il Fondo Paolo Prodi presso la biblioteca «P. Martino Capelli» della Provincia dell’Italia settentrionale dei padri dehoniani. Il fondo consiste in più di 3000 volumi selezionati tra quelli che si trovavano nelle biblioteche personali del professor Prodi.
In questo modo, dopo il trasferimento dell’archivio presso l’Università di Trento, un lascito significativo dell’opera del grande storico italiano trova una sua adeguata collocazione anche nella seconda città che ha rappresentato per lui un polo significativo sia sul piano accademico sia su quello personale.
Un’eredità fatta di pensiero, di prospettive aperte, di nuovi ambiti da investigare con sapienza e sagacia – con quella libertà di lasciare alla storia la possibilità di raccontare se stessa, senza racchiuderla previamente in gabbie ideologiche preconcette.
Nel raccoglierla, proseguendo l’orizzonte di fondo del progetto biennale di ricerca «Paolo Prodi: religione e spazio pubblico europeo» animato dal Dipartimento di teologia cattolica dell’Europa-Universität di Flensburg (Germania), in collaborazione con altri centri accademici e di ricerca europei e statunitensi, l’inaugurazione del «Fondo Paolo Prodi» è stata preceduta da un seminario di studio a cui hanno partecipato Daniele Menozzi (Normale di Pisa), Stefania Ninatti (Dipartimento di giurisprudenza dell’Università Milano-Bicocca) e Giuliano Zanchi (Università Cattolica del Sacro Cuore).
Nei lunghi incontri e chiacchierate con Paolo, emergeva sempre sia la sua curiosità per una prospettiva metodologica diversa da quella storica, ma capace di interloquire con essa, sia il suo desiderio di essere aiutato a pensare oltre se stesso. Ed è stato proprio questo lo spirito che ha innervato gli interventi nel corso del seminario di studio.
Storia
Il professor Menozzi ha abilmente intrecciato una sintetica, ma pregnante, ricostruzione di alcuni dei capisaldi della ricerca storica di Paolo Prodi con gli orizzonti che essa invita ancora oggi a pensare, con particolare riferimento al rapporto fra la Chiesa cattolica e la modernità occidentale. Chiesa cattolica e Riforma rappresentano due modi diversi con cui il cristianesimo cerca di rispondere e assumere la nascita moderna del soggetto, con la sua autonomia e operosità capace di trasformare sia la natura sia la cultura.
Delle possibilità che, anche dopo Trento, rimanevano aperte, la Chiesa cattolica sceglie quella di una lettura ideologica della storia umana: che vede nella Riforma il principio generativo di una peccaminosa decadenza della civiltà politica e culturale dell’Europa. Che trova nello stato moderno, con la sua abilità di governare il monopolio della violenza, l’istanza principe a cui contrapporsi. Disegnando, passo dopo passo, un progetto intransigente di «ritorno» alle condizioni pre-moderne di una civitas umana posta sotto la sicura tutela della guida ecclesiastica.
Un progetto che trova la sua fine, come disegno complessivo ma non come forma mentis, nel concilio Vaticano II. Dove la Dignitatis humanae, con la sua decisa affermazione del diritto fondamentale e inalienabile della libertà religiosa, rappresenta lo spartiacque intorno al quale si inizia a immaginare una possibile lettura della storia umana in rottura con lo schema intransigente.
Possibile perché il Vaticano II mantiene, nell’insieme del suo corpus, una duplice alternativa: quella di un’autonomia relativa, condizionata, delle realtà terrestri che troverebbe la sua giustizia solo nella corrispondenza all’impianto morale della dottrina cattolica, in quanto essa sa quali sono i dettati della legge naturale che accomuna tutti gli esseri umani; e, d’altro lato, quella che entra in dialogo con questa autonomia del mondo e dei vissuti, non per governarli ma per cogliere all’interno di questo legame imprescindibile per la Chiesa stessa le forme storiche di quella fedeltà al Vangelo per essa irrinunciabile – ancorandole così nelle dimensioni quotidiane del vivere umano contemporaneo.
È solo con papa Francesco, raccogliendo tratti portanti del papato montiniano, che questa seconda chiave di lettura sostituisce quella imperiale di un nuovo intransigentismo cattolico. Per Bergoglio la storia umano è l’ambito di azione dello Spirito ed è per questo che la Chiesa cattolica non può e non deve opporsi a essa, perché solo qui può trovare le indicazioni dell’agire incessante di Dio che orienta la sua missione. In questo modo, la modernità non viene né battezzata né rifiutata, ma assunta per quello che è: la realtà del vivere umano.
Una realtà che, oltre al molto di positivo che sa generare, produce anche ferite profonde, fa male, oscura l’umana dignità di essere. E su queste ferite della modernità lavora la misericordia di Dio che la Chiesa cattolica deve incarnare operosamente ed efficacemente nel quotidiano vivere umano.
Costituzionalismo
Se la libertà religiosa ha rappresentato un momento di cesura fra il progetto intransigente e un apprezzamento non ideologico della storia umana, la professoressa Ninatti ne ha esposto la complessità sul piano giuridico, in particolare facendo riferimento al lavoro concreto dei giudici. Ossia, quando essa entra in conflitto con altre libertà e le situazioni concrete chiedono un bilanciamento fra i due poli della conflittualità.
Sul piano giuridico, richiamandosi a Joseph Weiler, è stata ricordata l’abissalità della libertà religiosa che contiene la possibilità «di dire no a Dio», come disposizione di fondo dell’umano che il diritto moderno è chiamato a tutelare e riconoscere. Ma essa non è solo abissale, quasi smisurata potremmo dire, ma anche complicata una volta che i giudici se la trovano in mano e devono risolvere un conflitto di cui essa è parte.
È giuridicamente complicata perché attraversata da molte antinomie: radicata nel profondo spirituale dell’essere umano, è anche visibile; individuale e al tempo stesso collettiva; ha a che fare con la coscienza della persona, con quello spazio dell’essere umano che plasma la sua identità morale, ma non si esaurisce in questo, poiché è fatta anche di pratiche pubbliche che realizzano questa identità profonda dell’essere uomo e donna.
Insomma, la libertà religiosa è difficile da maneggiare e andrebbe maneggiata con cura. La professoressa Ninatti ha invitato a spostare l’ambito di osservazione per cogliere il destino della libertà umana non solo nell’ambito giuridico ma anche, più ampiamente, nelle nostre società, nel cuore della convivenza umana. Non è tanto nella teoria, nella filosofia del diritto, che bisogna guardare, ma nelle sentenze dei giudici: è qui che emerge lo status attuale della libertà religiosa – che, in termini di dichiarazioni, continua a essere nominata con grande cura e rispetto.
La scelta di campo, due sentenze di corti internazionali (CEDU e Corte di giustizia), indica già uno spostamento di fatto della collocazione della libertà religiosa nel contesto giuridico: quello che la colloca oltra i confini nazionali e la pone all’interno di quelle dinamiche di globalizzazione che Paolo Prodi aveva intravisto come la segnatura della fine della modernità occidentale.
Analizzando queste due recenti sentenze, emerge non solo lo slittamento della libertà religiosa a libertà ancillare quando comparata ad altre libertà (come quella di impresa o di espressione) tutelate dal diritto; ma anche a perdita dello strumento giuridico del bilanciamento tra libertà. Quando entrano in gioco altre libertà, che nel contemporaneo appaiono essere quasi auto-evidenti, il giudice sembra non sentire la necessità di bilanciarle rispetto alla libertà di religione – decretando, in fin dei conti, la supremazia delle prime su quest’ultima.
Raccogliendo le suggestioni di McCrudden, la professoressa Ninatti ha messo in risalto una sorta di analfabetismo religioso della cultura giuridica pratica, che non riesce a cogliere la valenza centrale per la dignità umana che la libertà religiosa esprime. Questo ha conseguenze anche sul piano della dottrina, dove la libertà religiosa esce dal comparto del costituzionalismo per diventare materia regionale – a cui, tuttalpiù, si potrebbe dedicare il diritto ecclesiastico.
Tra insensibilità pratica e emarginazione dottrinale, si sta aprendo una stagione inedita e di indebolimento complessivo di quella libertà (non più fondamentale) che è la libertà religiosa – fatto storico, questo, a cui la teologia dovrebbe dedicare un’attenzione profonda, quando invece pare non essersene neanche accorta.
Immagini
Con l’intervento del professor Zanchi, il seminario di studio ha permesso di aprire un nuovo versante di confronto con l’opera di Paolo Prodi – che nel precedente progetto non era stato preso in debita considerazione: quello sulle immagini (sacre), sulla loro portata liturgico-sacramentale e culturale.
La chiave di ingresso è stata quella della figura e opera del cardinal Paleotti, a cui Paolo Prodi ha dedicato uno dei suoi lavori iniziali rimanendogli legato per tutta una vita. Figura emblematica, anche nella sua tragicità, di un percorso della Chiesa cattolica nella modernità che avrebbe potuto essere ma non è stato. Davanti al nuovo iconoclasmo portato avanti dalla Riforma, Paleotti prova a inventare un percorso iconografico nel cui quadro si trova la genesi dell’artista in quanto tale. Nel vivace milieu culturale della Bologna di allora, il cardinale si fa fautore di un immaginario cattolico che per funzionare a livello celebrativo e liturgico deve essere, al tempo stesso, intelligibile sul piano della cultura ambiente – che allora progrediva sul piano delle conoscenze storiche e delle scienze naturali (dove Signonio e Aldrovandi erano i due riferimenti dialogici di Paleotti).
Questa sponda permette di rimettere in gioco una dimensione intrinseca dell’immagine cristiana, ossia il suo carattere sacramentale, iconico: non illustrazione, né rappresentazione, ma creazione di presenza e di contatto (in quella che potremmo chiamare la dimensione quasi-eucaristica dell’arte cristiana).
Quando, però, Paleotti si reca a Roma si rende conto che il suo tentativo di declinare all’unisono dimensione confessante e dimensione pubblica dell’immagine è morto prima di nascere: lo sfarzo del Barocco, con i suoi prodromi di realtà virtuale, si è già imposto su tentativi che avrebbero richiesto tempo, investimento e una disponibilità alla dialettica culturale che non rientravano nelle prospettive ideologiche della Chiesa pontificia a seguito dell’eresia riformata e del Tridentino.
Il barocco si impone così come la forza immaginaria destinata a sostenere l’impianto intransigente con cui la Chiesa di Roma scelse di attraversare la modernità europea. Eppure, il non esser stato di quello che avrebbe potuto essere l’impianto immaginato dal Paleotti racchiude in sé una lezione a cui il cattolicesimo contemporaneo, in materia estetica e iconografica, potrebbe attingere suggestioni di sicuro rilievo.
La tragicità di Paleotti sta nell’aver proposto un indice cattolico delle immagini quale tentativo disperato per contenere gli eccessi del barocco e le derive ecclesiali che esso conteneva sul piano della mediazione pubblica e culturale della fede cattolica. Ma anche in questo egli fallì.
Il dramma dell’immagine, e la sfida estetica che esso racchiude, si ripropone oggi per la Chiesa cattolica – davanti all’iconografia catturata nelle maglie strumentali della pubblicità, da un lato, e all’immagine virtuale come nuova produzione di realtà.
L’immagine non salva, ma ha la forza di creare effetti di presenza che mettono in un contatto affezionato e affettivo con quell’immagine del divino che è la carne del Figlio. Non per creare effetti momentanei di rapimento estatico, ma per dare forma a un’esperienza estetica in cui sente l’affidabilità del Dio che desidera raccogliere presso di sé ogni frammento di umano vissuto nel corpo che siamo.
Ex libris
Navigare tra i libri della biblioteca di Paolo è stata un’esperienza affascinante, quasi come un conoscerlo una seconda volta nelle annotazioni che poneva in calce, nei bigliettini che spuntavano come semi piantati nelle pagine, negli appunti presi a un convegno o nelle bozze di un suo intervento – finiti chissà perché in libri che non c’entravano nulla col tema da trattare.
A tutto questo sono stato introdotto e accompagnato con affetto da Dede, con Marta, Giovanni, Gabriele e Mario – insieme alle loro famiglie e alle loro vicende di vita. E la familiarità con le pagine si è trasformata in una familiarità con le storie di famiglia – una benedizione, a cui in modo diverso ora potranno accedere coloro che si accosteranno al «Fondo Paolo Prodi» perché sono libri che vanno oltre sé stessi.