Per una cultura sinodale

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astratto

Immagine di Sharon Johnstone (particolare)

La prima sessione dell’assemblea sinodale sulla sinodalità ha restituito ai partecipanti ai lavori in primis, e alla Chiesa tutta poi, una domanda: come essere Chiesa sinodale missionaria? Su quel come si gioca molto, forse tutto, del futuro della Chiesa.

La tentazione di interpretare il come in modo procedurale, tecnico, è latente in quest’epoca in cui l’ideologia della tecnica imperversa. Come se bastasse mettere in atto una procedura, una metodologia magari ricca di post-it e guidata da bravi consulenti per cogliere i segni dei tempi e intraprendere quella netta virata di cui s’avverte un bisogno spasmodico.

È urgente un pensiero di più ampio respiro. In una parola, serve una cultura sinodale. L’altro nome di quel come è, infatti, cultura. Una parola che dice molte cose, anche molto diverse tra loro, eppure animate da una vibrazione comune, da un ritmo che tiene insieme pentagrammi diversi, strumenti diversi.

Una cultura sinodale è urgente

In un prezioso volumetto pubblicato postumo e dal titolo Partire dall’unità (Città Nuova, Roma 1998), il vescovo di Aquisgrana Klaus Hemmerle si proponeva di «mostrare l’alternativa di un pensiero cristiano che si fonda su un modo di pensare trinitario» (p. 27). A ben vedere ogni esercizio del pensare che si voglia dire cristiano dev’essere trinitario non solo nella sua forma, ma anche nel suo esercizio. È questo il ritmo che deve scandire il processo sinodale e, più ancora, il modo sinodale di essere Chiesa missionaria.

Ciò, a ben vedere, non è un vezzo teologico o una speculazione accademica per addetti ai lavori, ché poi la vita pratica, si sa, all’ora della resa dei conti, fa vincere gli uni e perdere gli altri. No! Nel quadro di un contesto globale sempre più polarizzato e divisivo o si cerca di superare la dialettica di vincitori e vinti, di conservatori e progressisti o ne va della sopravvivenza stessa di una cultura che si possa dire autenticamente cristiana. Buttarsi a capofitto da una parte o dall’altra serve spesso a sancire l’irrilevanza, crescente, almeno in Occidente, di un pensiero cristiano. Il processo sinodale recepisce questa situazione globale tanto nella relazione di sintesi della prima sessione come nell’instrumentum laboris in preparazione della seconda sessione, recentemente pubblicato.

Si tratta dunque oggi di «ripensare il pensiero». Con queste parole di Edgar Morin è detta la sfida che la frammentazione di ogni tipo che viviamo a livello globale impone. Il «nuovo pensiero», pensiero antichissimo in vero, che deve nascere è un pensiero dell’unità plurale, secondo una bella espressione di Juan Carlos Scannone.

Detto questo, a chi tocca il compito di fare da grembo al sorgere di tale cultura?

Chi deve rimboccarsi le maniche?

In altre parole, chi è il soggetto di questa cultura? Il soggetto di uno stile trinitario del pensare dev’essere un soggetto «trinitizzato», cioè un soggetto di soggetti distinti e fatti uno dall’amore. La posta in gioco è seria perché si richiede di prendere sul serio l’identità della Chiesa. Non l’identità che sarebbe bello che la Chiesa avesse un giorno, ma la realtà che è e che è chiamata a vivere, cioè quella dell’essere corpo di Cristo di cui parla Paolo. Ora, è sempre l’apostolo a spiegare che non si diventa corpo per iniziativa propria, ma perché di propria iniziativa si lascia che sia lo Spirito a prendere l’iniziativa e a fare di tutti un solo corpo con molte membra.

È proprio questo corpo il soggetto di una cultura sinodale. Ma poiché questo corpo è di Cristo, questo nuovo soggetto ecclesiale, per grazia e libertà, è un soggetto cristificato a cui è donato, già e non ancora, il nous Christou, il pensiero di Cristo.

Questa è la vocazione della Chiesa, l’essere già e divenire sempre più, per opera dello Spirito di grazia e nella nostra libertà, un solo corpo. Il processo sinodale in corso spinge in questa direzione. Ma non basta un bravo vescovo o un bravo parroco “sinodale” per fare la sinodalità. Occorre tutta un’assemblea.

Il sinodo è quel camminare alla sequela di Gesù nell’amore reciproco affinché siamo fatti “tutti uno” dal Risorto che accompagna la sua Chiesa e che può donare a questo “noi” che è la Chiesa, il suo pensiero. E il pensiero di Cristo è la forma trinitaria del pensare e del vivere. Ma questo lo si fa insieme come Chiesa. Tutti e tutte.

Come si diventa ciò che si è?

Ma come si fa? Qual è la nostra parte? Imparando ad abitare quel luogo in cui pensiero e vita si fanno uno, in tal modo, scrive Hemmerle: «con la mia vita, anche il mio pensiero viene immerso nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. È qui che la vita ed il pensiero diventano uno» (Partire dall’unità, p. 35).

La via è quella dell’amore dispiegato nel punto cieco dal quale sgorga la luce: il Grido di Gesù all’ora nona. Con il grido d’abbandono Dio è là dove nessuno lo cerca. Sulla croce Dio entra nel nulla assumendolo completamente, facendosi Lui stesso nulla per amore. La conseguenza è che non c’è più niente, non c’è più nessuno che sia estraneo a Dio. Dio c’è dove non c’è. E questo è il massimo dell’amore: l’amore assolutamente gratuito che ama il non-amore, che ama dove non c’è amore, che ama perché non c’è amore.

Vivere e pensare in questa radicalità significa avere un pensiero crocifisso, perché tutto aperto, tutto accogliente, un pensiero ospitale, che sa far casa all’altro, alla sua idea, alla sua cultura, al suo punto di vista, che ama veramente l’altro così com’è. Si tratta di far casa alla sorella, al fratello e, con essi, a Cristo che vive in loro. Poi a sua volta ciascuno è chiamato a donare il proprio pensiero, la propria idea, la propria competenza, la propria cultura. La propria vita.

È proprio questo il metodo sinodale che è stato chiamato «conversazione» nello Spirito. Conversazione, appunto. Da con-versari, cioè dimorare insieme, trovarsi insieme. La conversazione nello Spirito allora non è una procedura, una metodologia con delle regole, implementata durante la prima sessione dell’assemblea sinodale. È molto di più: è un metodo. Cioè una via, uno stile di vita e di pensiero che richiede totale accoglienza e totale dono di sé, che cerca non un accordo diplomatico tra le parti, ma quel pensiero che sorge dalla comunione di vita e di pensiero esercitati alla presenza del Risorto. Poi le metodologie, diverse di volta in volta a seconda delle circostanze e degli obiettivi, aiutano. Anzi, sono necessarie. Eppure sempre secondarie.

Dove si pratica una cultura sinodale?

La dimora della «conversazione» è l’amore reciproco, è lo Spirito Santo. La dinamica di dono e accoglienza del pensiero e della vita in-Cristo accade, dunque, nel luogo della vita stessa del Figlio, in quel Terzo del Padre e del Figlio che ritma la relazione trinitaria aprendola a tutti.

Se dunque il pensare si apre alla reciprocità, si può fare esperienza di un «noi» che «non dissolve l’io e il tu, ma li costituisce» (p. 45) perché li inserisce in un’esistenza trinitaria. Si tratta di «allargare l’interiorità» (EG 272), di vivere una «mistica del noi» (VG, proemio). L’amore reciproco, com’è stato detto, è la «prassi del cielo» (R. Pesch) è l’esperienza del Regno, il luogo in cui si è chiamati a vivere il pensiero in una cultura autenticamente cristiana.

Il metodo sinodale della conversazione nello Spirito, del dimorare nello Spirito trova il suo luogo, pertanto, nel Seno del Padre, nella comunione, che è Persona, del Padre e del Figlio. Il noi ecclesiale è così sostanziato dal, e inserito nel Noi trinitario che è lo Spirito. In una parola, il luogo di una cultura sinodale è l’amore, altro nome dello Spirito.

A mo’ di conclusione vogliamo far risuonare le parole con cui Hemmerle conclude il suo saggio qui più volte citato:

Se noi inabitiamo l’uno nell’altro, noi siamo in Lui ed Egli è in noi. E così siamo una cosa sola nel Dio trinitario. Rimaniamo dunque in questa reciproca pericoresi, pensiamo gli uni agli altri e sosteniamoci a vicenda. In questo modo il nostro cammino diventa un cammino collettivo con tutti. La Chiesa diventa una via, una via collettiva (Weggemeinschaft) in cui ci apriamo l’uno per l’altro in maniera tale che chiunque di noi, nella propria quotidianità, possa far nascere e sviluppare un seme di questa meravigliosa comunione della vita trinitaria[1].


[1] K. Hemmerle, Partire dall’unità, Città Nuova, Roma 1998, p. 160.

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