I primi filosofi naturalisti, come è noto, si posero la questione dell’“arché”: il principio di tutte le cose. Dopo Talete, che lo scorgeva nell’acqua, e Anassimandro, che delineava l’“ápeiron” (l’infinito e, insieme, l’indefinito), Anassimene lo coglieva nell’aria.
A taluni storici della filosofia è parso un passo indietro, un ritorno a un elemento della natura. È davvero così? Forse no. Rammentando sempre che occorre situare storicamente persone e idee, infatti, ascoltiamo ciò che scrive Emanuele Coccia ne La vita delle piante. Metafisica della mescolanza: Quando c’è vita, il contenente riposa nel contenuto e vice versa. Il paradigma di questo intreccio reciproco è quel che già gli antichi chiamavano respiro (pnéuma).
Respirare significa, in effetti, fare quest’esperienza: ciò che ci contiene, l’aria, diviene in noi contenuto e, per converso, ciò che conteniamo diventa quel che ci contiene». L’aria ci avvolge e, al tempo stesso, è in noi, risultando anzi per noi vitale: l’ossigeno che è nei polmoni, come quello trasportato in tutto il corpo dai globuli rossi.
Non solo. La terra risulta per noi ospitale grazie all’atmosfera resa ricca di ossigeno proprio dai vegetali. Detto altrimenti: non vi è solo un mondo là fuori che ha selezionato gli organismi a esso più adatti. Vi sono anche le piante, che hanno trasformato quel mondo “di fuori” rendendolo atto alla vita di organismi più complessi.
Non solo: siamo talmente abituati a considerare la vita come sinonimo di vita animale da trascurare la centralità della botanica. Eppure l’organizzazione delle piante è reticolare, diffusa, priva di cabine di regia, fondata sul sentire piuttosto che sull’imporre. Non è gerarchica. I vegetali sono ricchi di “sensori”, ma privi di un sistema nervoso centrale che ne subordini le scelte. Intelligenza diffusa, non piramidale.
E se fosse lì il segreto di una “vita buona” anche per noi umani?