Il 21 marzo, primo giorno di primavera, si celebra la giornata mondiale della poesia.
Ogni giorno del calendario, ormai, si sa, è un giorno «dedicato a»: c’è la giornata mondiale delle balene e quella delle tartarughe marine, la giornata contro la desertificazione e la giornata per l’eliminazione delle armi nucleari, la giornata dei diritti umani e la giornata della terra. Le situazioni e le iniziative che meritano di essere celebrate e sostenute sono tantissime. Ma la poesia? Che senso ha celebrare la poesia? Malgrado l’apparenza, la domanda non è per nulla retorica, anzi implica e sottintende un altro interrogativo, non meno stringente. Perché per dire se abbia senso celebrare la poesia, bisogna innanzitutto sapere che cosa è la poesia.
Forma
Il che cosa della poesia riguarda, in primo luogo, la forma.
La forma della parola poetica è una forma riconoscibile a colpo d’occhio: che sia scritto in italiano, greco, coreano, ebraico, tedesco, un testo poetico è immediatamente distinguibile da un testo in prosa perché i segni della scrittura non occupano mai tutto lo spazio a disposizione ma, prima del margine, compiono una svolta a ritroso, un versus.
Mentre la prosa oratio procede prosus, diritta e diretta, senza interruzioni, invadendo lo spazio, tutto lo spazio possibile, senza accontentarsene mai, la parola poetica non ha ambizione di occupare spazi, anzi, trova definizione e apre risonanze proprio nel silenzio bianco dei margini vuoti.
La parola che si fa poesia ha a che fare con l’assenza, è ritrosa e sa ritrarsi. Non teme le reticenze ed osa il passo nel vuoto.
Basterebbe,
dunque,
disporre parole
su un foglio
lasciando margini vuoti
e spazi
privi di scrittura
per fare di un mucchietto
di sillabe
una poesia?
La risposta, evidentemente, è no: non si dà coincidenza necessitata tra il versificare e il fare poesia. Non necessariamente il fare versi equivale al fare una poesia, non tutte le parole disposte in versi sono poesia. E, dunque, ecco un altro passaggio: il che cosa della poesia non riguarda solo la forma in sé, ma riguarda anche il fare la forma.
Poesia è da un verbo greco (poiéo) che dice di un fare che non è un fare operativo, limitato alla mera esecutività, ma è un fare creativo: poietés è l’artigiano della parola che realizza la propria opera tenendo insieme mani, cuore e pensiero.
Ne viene, anche qui con assoluta evidenza, che una poesia scritta da un bravo versificatore, o addirittura dall’intelligenza artificiale, potrà anche essere un armonioso, elegante, intrigante e riuscito insieme di versi, ma non è poesia. Poesia è arte artigianale, non artificiale, atto creativo, non meramente esecutivo: presuppone un cuore che sente, una testa che pensa, delle mani che si impastano di vita.
Il tocco indicibile del divino
Eppure, non basta pensare, sentire e vivere, per comporre belle poesie. Mettere in gioco testa, cuore e mani non dà garanzie e assicurazioni sull’esito del risultato poetico. Oltre le competenze tecniche, oltre la profondità del sentire e del pensare, cosa decide, allora, della qualità della poesia?
I Greci legavano il fare poetico alla presenza delle Muse, nove divinità sorelle, figlie di Zeus, il sommo principio divino, e di Mnemosine, la dea della memoria. Come dire: l’atto creativo poetico si dà solo quando le potenzialità umane sono toccate dal divino. Il tocco indicibile del divino: è questa l’ispirazione.
Il che cosa della poesia riguarda, dunque, anche il farsi della forma. Quando, grazie all’ispirazione, il fare del poietés coincide con il farsi stesso della poiesis, la poesia diventa esperienza materica, respiro vitale, vita della vita.
Lavorare parole fino a renderle sassi di fiume, lucidi e lisci. Carezzare in punta di dita parole scabre come carta vetrata. Ascoltare. Tacere. Aggrapparsi ad un filo di poesia per tornare a cercare luce sui passi scuri del mondo. Poesia creatura, poesia creatrice.
Preghiera alla poesia
Oh, tu bene mi pesi
l’anima, poesia:
tu sai se io manco e mi perdo,
tu che allora ti neghi
e taci.
Poesia, mi confesso con te
che sei la mia voce profonda:
tu lo sai,
tu lo sai che ho tradito,
ho camminato sul prato d’oro
che fu mio cuore,
ho rotto l’erba,
rovinata la terra –
poesia – quella terra
dove tu mi dicesti il più dolce
di tutti i tuoi canti,
dove un mattino per la prima volta
vidi volar nel sereno l’allodola
e con gli occhi cercai di salire –
Poesia, poesia che rimani
il mio profondo rimorso,
oh aiutami tu a ritrovare
il mio alto paese abbandonato –
Poesia che ti doni soltanto
a chi con occhi di pianto
si cerca –
oh rifammi tu degna di te,
poesia che mi guardi.
Antonia Pozzi, 23 agosto 1934
Nella confusione dell’oggi, dove tutto è gridato , spesso con finalità strumentali, come accade nel triste teatro della politica, scoprire che da parte di un’umanita’ silenziosa si tentano , con strumenti diversi, vie di vita autentica, conforta e risolleva l’anima.