Il libro dello storico delle idee Franco Livorsi – Psiche e eternità. Alla ricerca del dio perduto (Moretti e Vitali, pp. 269, euro 27) – rappresenta per ciascuno e per ciascuna di noi una provocazione, nell’accezione vera e nobile del termine.
Tutti ci accorgiamo che una ragione disincarnata non basta, né per vivere bene né per comprendere il mondo. E neppure per cogliere le più intime e profonde dinamiche della politica o della cultura. Vi era, del resto, una sapienza prima della nascita ufficiale della filosofia, con Omero o con i cosiddetti presocratici. E vi sono una sapienza e una saggezza orientale che, a dispetto dei muri (o delle muraglie), ci seducono da secoli. E che dire, ad esempio, dello stesso Platone e dei suoi miti?
Livorsi procede a braccetto con “l’amico Jung” e riflette, scrive, mette in scena, come in teatro, i vari aspetti della nostra comune umanità. Scrive in prosa, ma la sua prosa è accattivante come se si trattasse di versi. Un pensiero poetante, direi. Dove la poesia dona al pensiero leggerezza, agilità, disinvoltura, acume, con le sue similitudini, le sue metafore, la sua capacità di condensare, il suo poter scorgere unità al di là delle contraddizioni apparenti.
Sintesi e analisi, in questo volume, paiono finalmente riconciliate. Eros è visto, insieme, come carne, sangue, passione, sentimento e, in fondo, anche ragione. La politicità degli umani è riaffermata, ma nella sua forma più completa, nella sua pienezza. E la ragione non abbandona mai il discorso e la proposta dell’autore; una ragione umanizzata, che non ignora, dunque, la nostra animalità o il nostro anelito verso l’eternità e il divino.
Una prospettiva, la sua, diversa, poniamo, dalla mia (per me, per dirne una, se vi è un “dio perduto”, si tratta proprio del Dio della Bibbia, e della sua relazione con gli umani). Eppure non una prospettiva estranea, anzi; mirabile è, tra l’altro, la sua capacità di guardare alla natura tutta, non solo agli umani (e proprio tra le nuove frontiere del pensiero filosofico, accanto al post-umano e al trans-umano legati alla rivoluzione digitale o ai biochip, vi sono la questione del rapporto tra il mondo e gli animali non umani e quella dell’“intelligenza diffusa”, non gerarchica, dei vegetali).
Poniamoci per un istante in ascolto. Livorsi scorge nella ragione una funzione ancillare; essa è (dovrebbe essere) la nostra serva, non la nostra padrona. Attenzione: ancillare, non marginale. Essa, però, «vuole che si apprenda non già per la vita, ma proprio “per lei stessa”, come se i nostri sapori, risonanze, sensazioni, gioie e dolori, risate o lacrime amare, per tutti noi centrali, non contassero nulla. E così mette la natura, tutta la fysis del mondo, tutta la nostra fysis, al servizio della serva: una serva che serve, ma solo per campare un po’ meglio».
E come non restare ammaliati dal dialogo, in fondo, tra parti o sensibilità diverse, tuttavia non confliggenti, dell’autore, come in una sorta di avvincente psicodramma? Tre i protagonisti: Psychicus, Religiosus, Atheus. Un dialogo nel quale il “Livorsi-pensiero” (soprattutto politico) non viene rigettato, bensì integrato.