Politiche dell’amicizia

di:

filosofia

L’opera di Jacques Derrida Politiques de l’amitié è, come tutti i capolavori, e forse più di altri, una miniera inesauribile di insegnamenti e di spunti sui quali soffermarsi. Come direbbe Gadamer, in essa si inseguono o si fondono orizzonti diversi e spesso lontani.

E tante sono le allusioni, i significati, i registri espressivi. L’autore, poi, sa che il tutto, come in un gioco interminabile e infinito di specchi, di luci e di ombre, si moltiplica in maniera esponenziale nell’incontro con i lettori e con le loro prospettive. Personalmente, ad esempio, vivo il testo come se condensasse, quasi fosse una sorta di prodigio, i miei ultimi vent’anni di studio in ambiti disciplinari differenti quali la Psichiatria e la Filosofia.

Aggiungendo molto altro, s’intende. Come è noto, il grande Habermas aveva sostenuto, in un primo momento, che quelle di Levinas o, appunto, di Derrida fossero opere più letterarie che filosofiche. Riconoscendone in seguito, tuttavia, l’inestimabile valore filosofico, oltre che letterario; scorgendone anzi il carattere fecondo, la fertilità proprio nel felice connubio tra l’agilità e la bellezza della scrittura e la profondità del pensiero[1].

Ecco, tante volte di Politiques de l’amitié si propone una lettura volta a coglierne le analogie e, soprattutto, gli aspetti dissimili, come in un accattivante movimento di rimandi e di ombre, rispetto al concetto del politico di Carl Schmitt. Una lettura e una tensione alle quali, peraltro, il volume di Derrida si presta volentieri. E se provassimo a soffermarci sui primi tre capitoli?

Heimat

Qui, prima di evocare direttamente il nostro autore e i “maestri del sospetto” ai quali si riferisce, ci illuminano le parole di André Neher. Proviamo ad accostarci al senso del vocabolo tedesco Heimat (la parola “Patria” ne è solo la traduzione approssimativa).

Ascoltiamo: “La vera traduzione della parola Heimat deve mettere l’accento sull’intimità indicibile dell’Heim tedesco, che culla, affascina, fa soffrire e placa l’Ebreo smarrito: il calore dello Shabbat nella casa dei propri genitori”[2]. Ecco, l’intimità indicibile. La stessa richiamata dal termine heimlich: ciò che è familiare, intimo, appunto, e, dunque, anche riservato, quasi nascosto.

E come nella lingua ebraica a volte nella stessa parola si leggono concetti in apparenza distanti o opposti, o vocaboli che sembrano avere un significato opposto rimandano alla stessa idea di fondo (speranza e fallimento, ad esempio: dal fallimento sgorga la speranza, e la speranza nasce, letteralmente, fallita), così Freud ha gettato nuova luce sul termine tedesco unheimlich: perturbante, inquietante.

Ciò che ci inquieta e turba in quanto estraneo, non familiare, certo, ma non solo; quell’elemento a noi esterno, quella forza estranea ci mettono in difficoltà anche, forse soprattutto in quanto attivano, risvegliano qualcosa che già era in noi, pur assopito. Risuonano con l’estraneo che è in noi, per dir così.

Ed ecco Derrida, a proposito della decisione e dell’evento; a proposito del loro nesso con il soggetto, con noi. Derrida che prova a leggere Nietzsche. Poniamoci in ascolto: la decisione “significa dunque l’altro in me, che decide e lacera. La decisione passiva, condizione dell’evento, è in me sempre, strutturalmente, un’altra decisione, una decisione lacerante come decisione dell’altro. Dell’altro assoluto in me, dell’altro come dell’assoluto che in me decide di me”[3].

E, si badi bene, in ciò continuo a essere responsabile, di me e dell’altro. E qui ci illumina una metafora: è come se io (ciascuno di noi), nella decisione che apre all’evento, ricevessi il battito del cuore dell’altro; il sangue, “la forza di arrivare”[4].

Oltre l’amicizia canonica

Per un istante torniamo al forse, al forse di Nietzsche, di Neher, di Derrida. Il forse non è, semplicemente, la possibilità. Concepiamo solitamente la possibilità, infatti, su due piani: quello diacronico, nel tempo (come potenza, potenzialità che diviene, o non diviene, atto, fatto), e quello sincronico (accanto a ciò che ora è, ho, sempre ora, delle alternative: potrebbe essere diversamente).

Il forse è invece lo spazio che consente all’evento di esser tale, a qualcosa d’altro di irrompere, sfuggendo a ogni determinismo (non a caso Giacomo Marramao sostiene che la libertà consista nell’evento). E l’aporia del forse consiste nel fatto che quell’evento richiede, per esser tale, di stabilizzarsi un attimo, “sospendendo” proprio il forse dal quale è scaturito.

Ecco, è nella prospettiva del forse che Derrida allude all’aimance, “al di là dell’amore e dell’amicizia secondo le loro figure canoniche”, proprio come al battito del cuore dell’altro in noi. “Ecco quel che può accadere, se si pensa con una qualche consequenzialità la logica del forse. Ecco anzi quel che può accadere alla logica secondo l’esperienza del forse”. “Ecco quel che rischierebbe di accadere, se si potesse sperarlo, tra amici, tra due, tra due o più (ma quanti?), che si amano”[5]. Qui giunti, Derrida sceglie di tacere.

E se, da credenti, provassimo per un attimo a concepire le vicende bibliche (il Cantico dei Cantici, ad esempio), il nostro stesso Dio, il nostro Dio “totalmente altro” e che pure sembra risiedere in noi, il nostro “credere e dubitare” in una prospettiva del genere?


[1] J. Habermas, Nachmetaphysisches Denken II. Aufsätze und Repliken, Suhrkamp Verlag, Berlin 2012; trad. it di L. Ceppa, Verbalizzare il sacro. Sul lascito religioso della filosofia, Laterza, Roma-Bari 2015, cfr. p. 87 e pp. 134-135.

[2] A. Neher, Ils ont refait leur âme, Éditions Stock, Paris 1979; trad. it. di R. Cuomo, Hanno ritrovato la loro anima. Percorsi di teshuvah, Marietti, Genova-Milano 2006, p. 159.

[3] J. Derrida, Politiques de l’amitié, Éditions Galilée, Paris 1994; trad. it. di G. Chiurazzi, Politiche dell’amicizia, Raffaello Cortina, Milano 1995, p. 96.

[4] Ivi, p. 97.

[5] Ivi, pp. 97-98.

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