Ho ascoltato, direttamente dalla sua viva voce, le recenti affermazioni del professor Alessandro Barbero in merito alla questione delle «differenze strutturali» tra uomo e donna, affermazioni che tanta risonanza hanno avuto sui media nei giorni passati. Ascoltandolo, mi sono resa conto, una volta di più, del fatto che competenza culturale e propositività intellettuale non sempre, e non necessariamente, si trovano a coincidere.
Nell’intento di spiegare alcune sue parole riportate sul quotidiano La Stampa lo scorso 21 ottobre, il professore ha puntualizzato le sue osservazioni in un’intervista pubblicata su YouTube:[1] «Quasi tutte le società umane sono partite dall’idea che, siccome in natura ci sono due sessi che fanno alcune cose diverse, ne consegue che questi due sessi devono fare tutte le cose diverse».
Questo l’assunto iniziale del discorso; il «quasi», con cui la frase si apre, verrebbe a dar conto di una certa onestà intellettuale, se non fosse che il professore, a convalida della sua assiomatica affermazione, cita l’esempio di una società «estremamente sofisticata» come quella di Atene, dove si dava «assolutamente per scontato che noi siamo divisi in due sessi con compiti diversi».
Leggendo “La Repubblica” di Platone
A questo punto, mi è sorto il dubbio che il professor Barbero non abbia letto, se non forse per stralci, uno dei testi fondamentali del pensiero occidentale, Politeia, comunemente nota come La repubblica, di Platone. Le consiglio di leggerlo, professore.
A testimonianza di quanto vivace fosse il dibattito intellettuale, nell’Atene del V e IV secolo a.C., in merito al ruolo delle donne nella società e alla possibilità di una loro partecipazione al potere, e di quanto non fosse per nulla «assolutamente scontato» che uomini e donne, a causa delle differenze biologiche, fossero destinati anche ad assolvere compiti differenti, restano non solo alcune note commedie di Aristofane,[2] ma anche questo dialogo platonico che è considerato come una delle opere fondative della filosofia politica occidentale.
La riflessione, dipanata attraverso dieci libri in forma di scambio dialogico a più voci tra Socrate e vari interlocutori, dà forma ad un modello ideale, ma concretamente realizzabile, di kallipolis, di bella città, in cui la giustizia è posta alle basi della convivenza civile. In alcuni passi scomodi – e perciò poco antologizzati – del V libro, libro centrale e apice dello sviluppo argomentativo dell’opera, «il luogo alto dell’intera Repubblica»,[3] Socrate pone la questione se la natura umana femminile sia in grado di condividere tutti i compiti del genere maschile, o nessuno di essi, o sia adatta ad alcuni e ad altri no.[4]
Il procedere dialogico si snoda tra incalzanti argomentazioni. Uomini e donne, osserva Socrate, «differiscono per quest’unica cosa – che la femmina partorisce, il maschio monta»;[5] ma questo non è sufficiente per sostenere che la donna sia diversa anche in tutte le altre cose: Pensiamo che le femmine dei cani da guardia debbano collaborare nella sorveglianza degli stessi greggi custoditi dai maschi, partecipare alle loro cacce e fare tutto il resto in comune con loro, oppure che debbano restare dentro la casa, quasi che il parto e l’allevamento dei cuccioli le rendesse inette, mentre ai maschi toccherebbe tutto il lavoro della cura dei greggi?[6]
L’exemplum zoologico è illuminante: se, per le femmine dei cani da guardia, il fatto che siano chiamate a partorire e allattare dei cuccioli non è di impedimento allo svolgimento del loro compito di custodia delle greggi, allo stesso modo anche alle donne non deve essere impedito di svolgere tutti quei compiti cui sono portate katà physin/per natura. Infatti, biologia a parte, l’unica differenza che è possibile trovare tra uomo e donna, sostiene Socrate, è legata alla forza fisica, di cui gli uomini sono dotati in misura maggiore. Per Socrate/Platone la differenza tra uomini e donne è misurabile soltanto in termini di sthénos, di vigore e forza fisica, per cui della donna si può solo dire che sia asthenésteron, meno forte fisicamente, rispetto all’uomo. Tutto qui.
Non vi è dunque, amico mio, nell’ambito della gestione della città alcuna occupazione che sia propria della donna perché è una donna, né dell’uomo perché è un uomo, ma poiché le doti naturali sono parimenti disseminate in entrambe queste forme di vita, secondo natura la donna partecipa a tutte le occupazioni, e a tutte l’uomo.[7]
Le doti naturali sono presenti allo stesso modo negli uomini e nelle donne, per cui, come per gli uomini, anche fra le donne accade che una donna sia dotata per la medicina e un’altra no, una donna sia dotata per la musica, un’altra per il combattimento, e un’altra invece no.
Nella kallipolis cui guarda Socrate/Platone, le donne non solo possono svolgere tutti i lavori cui sono portate katà physin, ma possono anche ricoprire le massime cariche di governo, dal momento che, rispetto a questa competenza, la loro natura non differisce per nulla da quella degli uomini.
Da cosa dipende, dunque, l’apparente inferiorità del sesso femminile? Soltanto dall’educazione penalizzante che alle donne viene impartita, un’educazione che impedisce alle donne di assolvere agli stessi ruoli che vengono affidati agli uomini. Il filosofo, infatti, non manca di sottolineare che «sono piuttosto le istituzioni attuali, opposte a quelle che proponiamo, a sembrare costituite parà physin/contro natura»[8]. Così commenta lo storico della filosofia Mario Vegetti: «La parità di funzioni e di ruoli sociali fra i due sessi costituisce uno dei maggiori “scandali” e certamente l’aspetto più innovativo, della grande utopia platonica».[9]
Non siamo la prima società che…
Ma andiamo avanti con le parole di Barbero: «Noi siamo la prima società nella storia che ha fatto questo esperimento pazzesco, di dire… anche se siamo diversi come corpi, maschi e femmine, saremmo tutti più felici se potessimo fare tutti le stesse cose».
Mi sa che il professore non conosce Bachofen. Mi sa che non ha nemmeno intravisto le aperture di pensiero, le nuove ermeneutiche della storia, della politica, del diritto e della religione generate dalla monumentale opera di ricerca dell’illustre giurista e storico svizzero dell’Ottocento.[10]
Mi sa che non ha idea, ad esempio, della rilettura critica delle figure femminili dell’Odissea come ipostasi di una concezione del divino preindoeuropea, imperniata sulla figura della Potnia; o degli appassionati percorsi di indagine archeologica e mitografica dedicati alle società matriarcali e matrilineari preindoeuropee.
Mi sa, perché se il professor Barbero conoscesse Bachofen e tutto ciò che ne è seguito, forse ci saremmo risparmiati quella – non so se ingenua o, piuttosto, spavalda – affermazione «noi siamo la prima società nella storia che…».
Ma ecco la conclusione dell’intervento del professor Barbero, così come l’ho ascoltato su YouTube: «Io mi chiedo se il fatto che ci siano poche donne in politica, poche donne alla guida delle imprese e così via, dipenda solo dal fatto che i maschietti fanno opposizione, le ostacolano, non le vogliono promuovere, o non dipenda anche dal fatto che, per avere successo in ambiti competitivi, per esempio, sono utili qualità che statisticamente hanno di più gli uomini: sicurezza di sé, aggressività e così via. Mi piacerebbe saperlo, ecco, mi piacerebbe si riflettesse su questo».
L’autorità è un bene immateriale
Caro professor Barbero, la invito caldamente a leggere e studiare i libri di Pierre Bourdieu. Uno, in particolare, fa al caso suo. Si intitola Il dominio maschile[11] ed è stato pubblicato sullo scorcio finale del Novecento, poco più di vent’anni fa. Se legge questo libro troverà delle risposte illuminanti ai suoi interrogativi. Troverà il concetto di «violenza simbolica», un concetto con cui, evidentemente, tanti uomini di cultura come lei devono ancora iniziare a confrontarsi.
Sarebbe una lettura utile, sa? Forse l’aiuterebbe a prendere consapevolezza dei meccanismi e delle logiche di dominio (maschile) pervasive e naturalizzate presenti nella nostra società, in tutti i suoi livelli, in tutte le sue manifestazioni. Anche in un’esternazione apparentemente ingenua, cortese e bonaria, come quella in cui lei si è prodotto pochi giorni fa.
Violenza simbolica. Le donne studiano, pensano, scrivono, pubblicano anche; ma, in Italia e non solo, gli uomini continuano a fare letteratura, filosofia e teologia ignorando il pensiero delle donne.
Se sfogliamo l’indice di un manuale di storia della letteratura italiana, anche relativa agli anni a noi più vicini, il Novecento, il Duemila, il numero di autrici presentate è prossimo allo zero.[12]
Ancora più drammatica la situazione nei manuali di filosofia: la vulgata filosofica liceale a stento, e solo da pochi anni a questa parte, si è aperta ad Hannah Arendt, il resto è buio totale.
Se poi leggiamo la bibliografia dell’ultimo saggio di un filosofo o di un teologo, la presenza femminile è quasi inesistente, come se filosofi e teologi stentassero a riconoscere alle donne una dimensione di auctoritas nella produzione del pensiero.[13]
Ma, mi si dirà, non è proprio tutto così, qualcuno le donne non solo le studia e le apprezza, ma ne presenta pure la storia e le opere in brillanti conferenze.
Un conto è raccontare una donna dal di fuori – esibire aneddoti e dettagli intriganti, fatti significativi o fatti curiosi e meno noti della sua vita –. Un conto è fare esercizio di dislocazione e nutrire la propria interiorità nell’apertura all’incontro con un pensiero altro; un conto è accettare che questo pensiero altro possa scardinare le strettoie dell’ordine simbolico monolitico che struttura la propria esistenza. Quello stesso ordine simbolico che ti fa pensare di essere un uomo dalla mente aperta solo perché, nelle tue conferenze e nei tuoi libri, ti occupi anche di donne.
Vorrei chiudere con Luisa Muraro: «L’autorità è un bene immateriale pregiato e la sua indipendenza è temuta per i grandi effetti che può avere nelle relazioni fra esseri umani».[14]
[1]https://www.youtube.com/watch?v=Af8_iTiB7hQ
[2] I titoli in riferimento sono Lisistrata, Tesmoforiazuse, Ecclesiazuse.
[3] Platone, La Repubblica, a cura di Mario Vegetti, BUR 2006, Introduzione, pag. 105.
[4] Platone, op. cit., pag. 643.
[5] Platone, op. cit., pag. 649.
[6] Platone, op. cit., pag. 639.
[7] Platone, op. cit., pag. 653.
[8] Platone, op. cit., pag. 655.
[9] Platone, op. cit., Introduzione, pag. 110.
[10] Johann Jakob Bachofen, Das Mutterrecht. Eine Untersuchung über die Gynaikokratie der alten Welt nach ihrer religiösen und rechtlichen Natur, 1861 – Il matriarcato. Ricerca sulla ginecocrazia del mondo antico nei suoi aspetti religiosi e giuridici.
[11] Pierre Bourdieu, La domination masculine, 1998.
[12] https://radicidigitali.eu/2021/02/05/donne-invisibili-come-i-manuali-di-letteratura-ignorano-il-contributo-femminile-prima-parte/
[13]https://www.ilmessaggero.it/vaticano/donne_teologhe_discriminazioni_chiesa_metoo_gender_gap_mind_the_gap-5710927.html
[14] Luisa Muraro, Autorità, Rosenberg & Sellier, 2013, p.69